Alle elezioni negli Stati Uniti c’era da aspettarsi una sconfitta di misura di Kamala Harris, ma non una vittoria così netta di Donald Trump. Evidentemente le fratture geografiche, sociali, demografiche e razziali che spaccano l’America sono più profonde di quanto immaginiamo. In queste ore c’è chi esulta e chi è triste, tra i cittadini, i partiti, i governi di ogni luogo del pianeta. Chi scrive è semplicemente preoccupato, molto preoccupato, per lo stato di salute della democrazia liberale in Occidente. Un Occidente con la sua guida storica ai piedi di un gangster politico, con un’Europa vile e impotente di fronte all’espansionismo dell’autocrazia russa, con un premier israeliano ostaggio della destra nazionalista e ultraortodossa; un’Occidente, inoltre, attraversato da un antisemitismo dilagante.

Quella forma di governo sconosciuta

Per altro verso, la democrazia liberale è ancora sconosciuta in una parte enorme del Continente asiatico e di quello africano, e viene rifiutata da quei paesi islamici nei quali politica e religione – temporale e spirituale – sono tutt’uno. Né la sua “esportazione” in Iraq e Afghanistan ha dato i risultati attesi. La democrazia liberale è malata o non piace, insomma, e anch’io non mi sento bene. Ma, al di là delle battute, torno al punto. Ho già osservato su queste colonne che il tycoon newyorkese, con un linguaggio quasi adolescenziale e con una retorica primitiva, ha saputo calamitare gli umori yankee avversi alla “power élite”. Intendiamoci, però.

Il potere del popolo

L’immagine del popolo che mette in riga l’establishment tramite il leader scelto dal popolo non è certamente nuova. Al contrario, l’hanno usata in molti, da Franklin D. Roosevelt a Ronald Reagan. Così come l’idea che la fedeltà al partito può entrare in contrasto con la fedeltà al paese, incentivando la corruzione, la rapacità clientelare, le menzogne della stampa, la passione smodata per il potere, risale addirittura agli albori della Rivoluzione americana.

Cento anni dopo, Mark Twain raffigurava Washington come una città in cui i membri del Congresso avevano una fama talmente desolante che gli affittacamere pretendevano il pagamento anticipato della pigione. “The Gilded Age” (1873), il suo romanzo satirico scritto in collaborazione con Charles Dudley Warner, diventò il simbolo beffardo di un’intera epoca: non dell’oro, ma falsamente dorata. E, all’inizio del Novecento, Lincoln Steffens – divenuto celebre per le sue inchieste sulla corruzione nel mondo finanziario – non faceva mistero di detestare visceralmente quei riformatori “upper class”, petulanti ed elitari, paternalisti e sostanzialmente indifferenti ai bisogni degli umili, avvolti nell’ipocrita mantello della loro rettitudine morale e alterigia intellettuale, (“The Shame of the Cities“, 1904).

Un rancore antico, quindi, che ha contagiato persino gli ispanici e i neri, e che almeno in parte spiega il voto Usa. Le buone performance economiche della presidenza Biden non sono bastate a neutralizzare l’ostilità verso una “cultura woke”, per usare un’espressione riassuntiva, che è maggioritaria nei gruppi dirigenti dell’Asinello. Attenzione: “De te fabula narratur”, si potrebbe dire a certa sinistra italiana.