Donald Trump si troverà con ogni probabilità a lavorare per i prossimi quattro anni per aprire una nuova fase della politica statunitense in Medio Oriente. Lo scenario post 7 ottobre lo impone, dopo l’annientamento del potenziale militare dei proxi di Teheran nella regione e con il forte indebolimento dello stesso Iran sia per ragioni endogene che per la sua fallimentare dottrina di politica estera che prevede la proiezione della sua influenza in tutto Medio Oriente e fino al Mediterraneo. In queste ore gli occhi sono puntati sia a Washington che a Gaza, in Libano e in Iran.

Tra i palestinesi di Gaza alcuni credono che lo stretto rapporto di Trump con Israele possa essere sfruttato per porre fine alla guerra, rendendolo così il candidato preferito. Secondo un’inchiesta pubblicata lunedì scorso dalla Reuters, l’opinione pubblica libanese, stremata da una forte crisi economica endemica e che si è vista precipitare nel calvario di una guerra da Hezbollah, la ramificazione dell’Iran che di fatto controlla il paese, crede che l’esito delle elezioni non avrà alcun impatto positivo sia con Trump alla Casa Bianca che con Kamala Harris. Agli stati del Golfo ricchi di petrolio, sebbene non siano stati espliciti sul candidato preferito, potrebbe non dispiacere una presidenza Trump, probabilmente più disposta a ignorare le costanti violazioni dei diritti umani e il coinvolgimento del Golfo in Sudan e Yemen, visto che la presidenza di Trump ha contribuito sia a proteggere che a rafforzare il potere dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti nella regione.

Turchia

Per quanto riguarda la Turchia, il suo presidente Recep Tayyip Erdoğan sta aspettando il risultato delle elezioni per poter prendere determinate decisioni politiche, in particolare in Siria e in Iraq. Sotto una Casa Bianca amministrata da Trump è probabile che le relazioni turco-americane continuino su una base assolutamente transazionale, opportunistica e mutevole come è accaduto con la presidenza Biden, durante la quale il leader turco ha dovuto fare sempre anticamera e non ha mai ricevuto da Washington un invito ufficiale a incontrare il presidente americano. Erdogan probabilmente vede Trump in modo molto più favorevole, come un uomo forte che risponderà alle sue telefonate e ascolterà le sue opinioni come ha fatto durante il precedente mandato.

Ma, dovrebbe essere ovvio, che nel caso di una vittoria di Trump le linee di comunicazione che si riaprirebbero con la Casa Bianca non comporteranno l’eliminazione del problema più grande per Erdogan rappresentato dalla cattiva reputazione di Ankara nel Congresso e nella burocrazia della sicurezza nazionale americana per il fatto che il governo turco non si è ancora liberato del sistema di difesa missilistica S-400, che la Turchia ha acquistato durante il primo mandato di Trump. Dunque, non ci dobbiamo aspettare miracoli, ma soltanto un elevato feeling tra due leader molto autoritari e pragmatici.

Due fattori potrebbero rivelarsi di importanza decisiva nel plasmare le dinamiche turco-americane nel breve termine. Il primo e più probabile sarà una decisione americana di ritirare le truppe dall’Iraq. Una decisione del genere è in fase di sviluppo da un po’ di tempo e le attuali dinamiche relative a Iran e Israele potrebbero renderla più difficile. Infine, per quanto riguarda l’Iran, le sue relazioni con gli Usa sono un altro tema chiave di politica estera che il prossimo inquilino della Casa Bianca dovrà affrontare. Trump ha espresso opinioni intransigenti sull’Iran, incoraggiando Israele a colpire le strutture nucleari iraniane come rappresaglia per l’attacco missilistico del 1 ottobre contro il territorio israeliano. Sebbene il tycoon si sia ritirato dall’accordo sul nucleare, da allora ha però affermato che è necessario giungere ad un altro accordo.

Dall’Iran nessuna simpatia

Il regime dei mullah non ha alcuna simpatia per il candidato presidenziale repubblicano. Quando nel 2018 il presidente degli Stati Uniti Donald Trump si ritirò dall’accordo sul nucleare sottoscritto nel 2015 dai Paesi del P5+1 e impose sanzioni ancora più severe all’Iran, l’economia iraniana sprofondò in una crisi profonda dalla quale non si è più ripresa.

Inoltre, per il regime iraniano, Trump è un criminale che deve essere punito per l’omicidio di Soleimani, il comandante della Forza Qods dei guardiani della rivoluzione, considerato uno dei leader più potenti del regime, responsabile di numerosi attentati terroristici, quali l’attacco all’ambasciata americana a Beirut nel 1983, e responsabile della formazione e dell’operatività dei gruppi del cosiddetto “asse della resistenza” operanti in Iraq, Siria, Libano e Yemen attraverso i quali intende diffondere l’ideologia khomeinista al di fuori della Repubblica islamica.

Il neoletto presidente iraniano Masoud Pezeshkian è stato voluto dalla guida suprema Ali Khamenei per lavorare al ripristino del Piano d’azione globale congiunto (JCPOA) per limitare il programma nucleare iraniano in cambio della rimozione delle sanzioni per far uscire l’Iran “dall’isolamento” e dalle sabbie mobile in cui è sprofondata l’economia del paese e per questo Teheran guarda con favore ad Harris e con timore a Trump perché ha necessità di simulare aperture al dialogo con Washington nella speranza di vedersi allentare le sanzioni per dare respiro alla propria economia agonizzante.