Tensione costante in Medio Oriente
Election day, Iran pronto ad attaccare Israele e dare il ‘benvenuto’ al nuovo presidente Usa
Si temono nuove ambizioni nucleari dell’Iran, pronto a mandare un messaggio a Tel Aviv e a Washington
Mentre il mondo con il fiato sospeso attende di sapere chi sarà il prossimo presidente degli Stati Uniti, provando così ad immaginarsi alcuni possibili scenari, Israele attende l’attacco che dall’Iran dovrebbe arrivare proprio in concomitanza con il voto americano. Che i nemici dell’America e non solo gli iraniani possano approfittare dell’Election day per dare il benvenuto al nuovo presidente lo pensano in molti, ma nel caso di un possibile attacco di Tehran l’obbiettivo degli Ayatollah sarebbe quello di inviare un doppio ammonimento, l’uno agli Israeliani, l’altro agli Stati Uniti. La tensione è alta e il rischio che questo continuo botta e risposta dalla valenza simbolica possa prima o poi sfociare in altro è sempre più vicina. Israele del resto era stato chiaro dopo l’ultimo attacco in risposta al precedente lancio di razzi da parte del regime iraniano. E se invece i pasdaran dovessero lanciare l’attacco dall’Iraq come si pensa, allora questo potrebbe alzare ulteriormente non solo la tensione, ma anche il rischio che Tel Aviv metta nel mirino di una futura risposta anche un livello di obiettivi da colpire più alto.
Attacco certo, “ordine arrivato nei giorni scorsi”
Che l’attacco ci sarà sembrano essere convinti in molti, e del resto secondo quanto riportato dal New York Times, citando fonti iraniane, l’ordine di attacco e di approntarne i piani sarebbe arrivato già lunedì nel corso della riunione del Consiglio di sicurezza di Tehran dallo stesso ayatollah Khamenei. Sono ore in cui si parla anche di un possibile cambiamento nella dottrina nucleare da parte iraniana, soprattutto nel caso in cui persista quella che è stata definita una minaccia “esistenziale” da Kamal Kharrazi, consigliere proprio del leader supremo. Sempre secondo Kharrazi, Tehran potrebbe dotarsi presto di un’arma nucleare ad oggi impedita da una fatwa dello stesso Khamenei, con molta probabilità più consapevole dei più agguerriti tra le “guardie della rivoluzione” alla sua corte dei rischi che questo provocherebbe.
Non ci sono dubbi che l’attentato alla residenza di Netanyahu a Cesarea abbia cambiato le carte in tavola e obbligato Israele a considerare ogni eventualità, tanto sul fronte esterno, quanto su quello interno. L’operazione di intelligence che ha visto sette cittadini israeliani finire in manette per attività di spionaggio per conto dell’Iran, fotografano basi militari, edifici governativi, il sistema Iron Dome. Resta da capire se gli ebrei di origine azera lavorassero per danaro, visti i lauti compensi ricevuti, o per convinzione. L’operazione dello Shin Bet, il servizio segreto interno, ha dimostrato quanto pervasivi possano essere i tentacoli iraniani. Si parla di uno spionaggio durato un biennio, con un guadagno di 26 mila dollari. Gli arrestati con l’accusa di “spionaggio in tempo di guerra” rischiano l’ergastolo, ma intanto Israele si interroga su quante cellule di “spie” al soldo del nemico possano ancora esserci. Persone comuni, con occupazioni comuni, che in realtà operano dall’interno.
Escalation o botta e risposta?
Sembrerebbe infatti che tra i luoghi oggetto dello spionaggio ci siano anche le basi israeliane colpite negli attacchi con droni suicidi. Le autorità Israeliane hanno definito il tutto come tra le minacce “più gravi conosciute da Israele”. La stessa fitta rete di intermediari tra cui cittadini russi e turchi, evidenzia la complessità dell’operazione messa in atto da Tehran. Intanto Israele si prepara alla sua notte di martedì, in cui oltre a conoscere l’uomo o la donna con cui confrontarsi dal 20 gennaio 2025, capirà anche se le intenzioni iraniane sono quelle di andare verso l’inevitabile e temuta escalation, oppure di chiudere per ora la questione al solito botta e risposta a colpi di missili. Di sicuro la notte americana dirà molto sull’atteggiamento, ma l’impegno americano verso Israele non è in dubbio, sia che vinca Donald Trump, sia che vinca Kamala Harris. Forse quello che spera Israele e soprattutto Netanyahu nel caso in cui alla fine tornasse l’ex Presidente è la ripresa concreta e fattiva degli “accordi di Abramo”, l’unica strada possibile per costruire la stabilità in Medio Oriente e isolare l’Iran.
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