Siamo davanti a uno di quei momenti spartiacque della storia economica globale, paragonabile per portata a quanto avvenne nel 1944, con gli accordi di Bretton Woods, o nel 1971, con la fine della convertibilità del dollaro in oro. E ora, nel 2025, l’annuncio del governo britannico sulla “fine della globalizzazione” non appare come un’esagerazione retorica, ma come la presa d’atto di una trasformazione già in atto da anni. È la fine dell’iper-globalizzazione, cominciata con l’apertura economica della Cina e la caduta del comunismo in Europa. Come ogni grande paradigma economico, anche questo non muore di colpo, ma per fasi.

Crollo Borse, altri i focolai da monitorare

I segnali di crisi si moltiplicano. Se le Borse attirano l’attenzione per la rapidità dei ribassi,  sono altri i focolai da monitorare: il mercato immobiliare commerciale negli Stati Uniti e, soprattutto, il mercato dei titoli di Stato americani. Gli hedge fund hanno in portafoglio oltre mille miliardi di dollari di posizioni a leva in obbligazioni e futures sui Treasury. È nelle fasi di crisi sistemica che queste fragilità emergono. Non a caso, l’indice Cape di Robert Shiller, che misura la valutazione delle azioni rispetto agli utili, era vicino ai massimi storici solo pochi mesi fa.

Le conseguenze dei dazi di Trump

Donald Trump resta fermo sulla linea dei dazi, segno distintivo della sua politica economica e strumento identitario rispetto agli altri leader della destra globale. Nessun partito conservatore europeo ha mai proposto misure simili. Consulenti a lui vicini, come Scott Bessent e Stephen Miran, vedono nei dazi non una chiusura ideologica, ma un mezzo per riequilibrare l’economia globale, preparando anche una possibile svalutazione del dollaro. Le conseguenze? Un colpo durissimo a tutti quei modelli economici fondati sull’export industriale: la Germania, ma anche la Cina. Un errore di prospettiva frequente è pensare che gli Stati Uniti ne usciranno più danneggiati: la verità è che l’economia americana è più chiusa e resiliente di quanto si immagini.

Il ruolo chiave delle banche centrali

L’Europa, invece, si trova spiazzata. L’Unione monetaria ha preferito politiche mercantiliste che ora diventano vulnerabilità. Anche nell’ipotesi di un ritorno a Washington di un presidente moderato — repubblicano o democratico — è difficile immaginare un pieno ritorno all’assetto precedente. Le industrie si muovono lentamente, ma quando cambiano sede produttiva, lo fanno in modo definitivo. Le scelte industriali, una volta avviate, non si invertono con un semplice cambio di inquilino alla Casa Bianca. Per questo, anche un eventuale dietrofront sui dazi da parte di Trump non cambierebbe la sostanza delle cose. In un momento in cui l’economia globale si sta ridefinendo, una delle domande più urgenti per governi e investitori è: cosa devono fare le banche centrali? Tra le previsioni più diffuse, si fa strada con insistenza l’idea che i dazi siano intrinsecamente inflazionistici. Ma è davvero così? Vale la pena scomporre questa affermazione, ponendosi tre quesiti fondamentali: i dazi rappresentano uno shock dei prezzi? Questo si tradurrà in inflazione duratura? E, soprattutto, come dovrebbero reagire le banche centrali?

Negli ultimi anni, i report sull’inflazione hanno mostrato un quadro duale: i prezzi dei beni sono cresciuti molto al di sotto degli obiettivi delle banche centrali, mentre quelli dei servizi sono aumentati ben oltre. Con l’inasprimento delle politiche commerciali, ci si attende ora un rialzo più marcato dei prezzi dei beni, e con esso un aumento della componente domestica dell’inflazione. La narrativa ottimistica che ha per anni dominato — e che vedeva la globalizzazione come forza deflattiva perenne — si sgretola sotto il peso dei fatti. La fine della globalizzazione non è solo un fenomeno culturale, ma ha implicazioni economiche profonde che molti avevano sottovalutato.

L’impossibile trinità

Pochi economisti oggi in attività hanno memoria diretta di un mondo come quello verso cui stiamo andando. Non si tornerà al gold standard, né al sistema di Bretton Woods. Eppure, alcune caratteristiche di quei regimi monetari stanno riemergendo. Se si seguirà la traiettoria indicata da Stephen Miran, presidente del Council of Economic Advisers, potremmo entrare in una fase di regimi valutari semi-fissi accompagnati da piena mobilità dei capitali. Uno scenario che ripropone un vecchio nodo della teoria economica: l’impossibile trinità. Secondo questo principio, non è possibile avere simultaneamente un tasso di cambio fisso, libertà nei movimenti di capitale e controllo indipendente sull’inflazione. Si deve scegliere. E proprio su queste scelte, le banche centrali saranno chiamate a confrontarsi.

Il ritorno a una gestione “morbida” delle valute potrebbe comportare conseguenze rilevanti: o si limiterà la libertà di movimento dei capitali, o si rinuncerà al controllo diretto sui prezzi. O, ancora, si accetterà una maggiore volatilità dei tassi di cambio. In ogni caso, si entra in una nuova era della politica monetaria, in cui i vecchi strumenti potrebbero non bastare più. E dove, ancora una volta, le banche centrali si troveranno a navigare in acque inesplorate.