Ha dato un valore al mercato mondiale
Grazie Trump, con i dazi la globalizzazione è tutt’altro che morta: il paradosso del mondo più connesso che mai

Thank you mr. President! Lo diciamo con la piena consapevolezza di andare contro il rigore di chi si oppone a questo caos, volgare e alle volte ridicolo, suscitato dalle scelte di Trump. Eppure, è proprio questa crisi strutturale che ci sta facendo prendere contezza che la globalizzazione è tutt’altro che morta. Ok, può essere che cambierà nome. Può darsi che si inizierà a parlare di globalità. O di mondializzazione. Per chi vuol atteggiarsi ad amico dei francesi. Fatto è che, l’altro giorno, su quel cartello traballante al vento di Washington, c’era tutto il mondo. Tutto il mercato globale. Con le sue interconnessioni, gli interessi intrecciati (e inscindibili) e con la sua compattezza di fronte a un avversario che si è messo in testa di farci tornare agli anni Cinquanta del Secolo breve. Quando l’America era la prima manifattura del mondo e noi le compravamo tutto.
Nella sua schiettezza – per quanto sorprendente – il disegno di Trump è l’affermazione della nostra esistenza. C’è l’Unione europea su quel cartello. Scritta a chiare lettere e con tanto di bandierina che ne ratifica l’esistenza. È l’Europa con la sua capillare presenza, grazie a prodotti, macchinari e know-how, sul mercato Usa. L’Europa dei capitali, della difesa e dei diritti umani. Non soltanto quella del Green deal e delle politiche D&i, il cui approccio ideologico si è rivelato autodistruttivo. L’Europa della Germania che ha deciso di fare debito e quella della Francia disponibile a condividere il suo ombrello nucleare. Un’Europa disposta a tutto pur di fermare Putin a Est e di dimostrare a Trump che gli Usa non possono fare a meno di noi.
C’era la Cina: gigante mansueto a cui non devi pestare i piedi. L’annuncio di voler imporre tariffe aggiuntive del 34% sui prodotti statunitensi a partire dal 10 aprile – quelli sì che sono controdazi – rientra proprio nel paradigma di una globalizzazione che è passata dall’essere utilitaristica e conciliante, a conflittuale e multilaterale. È una metamorfosi, in cui molte relazioni si fanno più complesse, ma nulla ci cancella. I mercati saranno più volatili. L’incertezza tornerà in favore più di chi vuole speculare, invece che investire sull’economia reale. Il volume di miliardi di dollari generato dai dazi – finora se n’è persi oltre 2mila, però – potrà essere sventolato con orgoglio da Trump, come la prova che “Maga” è riuscita. Ma quando il primo consumatore al mondo pretende di tornare a essere primo produttore, con una trasformazione che lascia vittime sul terreno sia tra i fornitori, sia i clienti, siamo ben lontani dall’aver disegnato un nuovo ordine mondiale, all’insegna della pace e dominato dagli Usa. Anzi, si è dato fuoco alle polveri per renderlo più polarizzato. Un mondo in cui anche i pesci più piccoli trovano il loro quarto d’ora di gloria. Lesotho e San Marino: chi si ricordava più di loro prima che Trump li mettesse esposti sulla sua gogna?
Nel punire il mondo, Trump ha dato un valore al mondo. Chissà quanto dev’essere difficile ammetterlo per tutti quei Nostradamus che insistono a tirarsela per aver predetto la fine della globalizzazione già decenni fa. Tutti come Fukuyama: mai suonare il de profundis di un’epoca. Perché se quella risorge, bisogna poi farvi i conti. E se ne facciano una ragione i sovranisti, che, dietro i loro muri, s’illudono di trattare alla pari con chi ha emesso una fatwa indistinta tra daziato, non daziato e forse poco-daziato-ma-aspettiamo. Churchill diceva che un “appeaser” è uno che nutre un coccodrillo, sperando che lo mangi per ultimo. Washington è vorace e vuol indietro i suoi dollari. Crede che così possa davvero dominare il sistema e, al contempo, ritirarsi in un’immensa bolla di autosufficienza produttiva. Ma chiunque sa, già al primo esame di economia-politica, che una moneta è forte se circola ed è nelle tasche di tutti.
Quando democrazie e regimi canaglia bramano a far cassa con i biglietti verdi, vuol dire che nel dollaro si può ciecamente credere. “È la globalizzazione, bellezza”. Mentre se svaluti, governi e mercati si orientano altrove. Con l’oro per esempio. Del resto, perché mai Trump avrebbe graziato le materie prime strategiche? Dopo tanti strali, la sua scure ha, per così dire, risparmiato Canada e Messico. E perfino la Russia. Perché? Washington è vulnerabile in fatto di acciaio, alluminio, fertilizzanti, uranio e altre commodity – comprese anche le terre rare – senza le quali né può procedere sulla sua transizione digitale, né può ricostruire l’industria manifatturiera. Uno stallo, com’è nelle migliori tradizioni della globalizzazione.
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