Appassionati di Dan Brown, cultori del Nome della Rosa, preparate i pop corn e mettetevi comodi. “Dominium Dei” non è Angeli e Demoni e Ivo Mej ci consentirà di dire che non è Umberto Eco. E però nelle 255 pagine di questo suo romanzo storico e thriller d’esordio (Male edizioni) ci troverete mistero, intrigo, suspence, violenza e la grandezza, non sempre nobile, della Chiesa nei secoli che quei romanzi hanno saputo così bene raccontare. Andando spesso a braccetto con la blasfemia e shakerando il tutto tra le atmosfere cupe e maestose di ieri e quelle già solari ma non meno meschine della Capitale di oggi. La storia prende le mosse da due fatti di sangue a tre secoli e a centinaia di km di distanza l’uno dall’altro. Il 21 settembre 1761 la folla si riunì, lungo le vie di Lisbona al Rocio “per vedere la giustizia colpire gli eretici confessi, le streghe, i sodomiti e gli ebrei. L’autodafè fu uno dei più meravigliosi che si fossero mai visti”. A farne le spese fu un giovane gesuita Gabriele Malagrida, la sua fu l’ultima esecuzione della Santa Inquisizione e segnò anche la fine (momentanea) dell’Ordine della Compagnia di Gesù. Giri pagina, cambia font grafica – corsivo nel Settecento, tondo a Roma oggi – e ti ritrovi nella Capitale il 26 aprile 2030 nella magnifica biblioteca dell’Università gregoriana in piazza della Pilotta. Qui, tra le maestose e cupe colonne in marmo della più antica sala lettura, si presenta Padre Giulio Cordara, “un prete, un sacerdote, un elite”. Il quale, trovato il piccolo volume dal titolo chilometrico di cui era in cerca, “Il Cristianesimo felice nelle missioni dei Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay”, lo annusò con gusto e passione, si sistemò gli occhiali sul naso, si mise finalmente a leggere.

In quel preciso istante padre Cordara fu trafitto da un gancio metallico, “un uncino da macello, che gli trapassò la testa entrando dall’occhio destro e uscendo dalla nuca”.
Lisbona-Roma, anno 1761 e anno 2030, un rogo sulla pubblica piazza davanti al popolo festante su cui bruciava un giovane gesuita accusato di eresia, il cadavere sfigurato di un gesuita intellettuale e appassionato di Storia. “Dominium Dei” prende le mosse da qua. E seguendo questo doppio binario temporale, narrativo e anche grafico, arriva ad intrecciare i due cadaveri in un’unica appassionante spy story dove gli intrighi dell’oggi s’intrecciano a quelli del passato. A muovere i fili, ieri e oggi, sono sempre loro: potere e danaro. Nello specifico il tesoro in questione è quel “Dominium Dei” che, secondo scritti e leggende, costituisce “la ricchezza secolare accumulata dai Gesuiti in oltre due secoli di missioni nel Nuovo Mondo”. Il romanzo quindi è una gigantesca caccia al tesoro in cui la scrupolosa e certosina ricerca di indizi del passato è l’unica chiave possibile per trovare oggi quel tesoro milionario. Vero? Falso? La casa certa è che Ivo Mej, giornalista e autore tv a La7, ha in pratica ricoperto le pareti di casa con libri di storia e testi rari per sostenere il romanzo storico nell’unico modo lecito e riconosciuto: con la Storia. Anche perché l’idea del romanzo nasce da un reperto eccezionale, un pezzo raro se non unico: il documento originale con la sentenza dell’Inquisizione con cui il giovane sacerdote Gabriele Malagrida fu bruciato al rogo quella mattina di settembre del 1761. Mej lo ha trovato in un libro di famiglia. E da lì è iniziato tutto. A indagare sul delitto una terna imperdibile di cui vi diamo qualche assaggio direttamente dalla penna di Ivo Mej. L’elemento femminile della terna è un’erede del nobile casato dei Colonna che da secoli intreccia il proprio destino a quello del Vaticano.

La principessa in questione si chiama Isabella, ha “dita lunghe laccate di rosso cardinalizio” e gambe “scoperte poco sopra il ginocchio con i piedi, deliziosi, accolti da provocanti, altissime, Loubutin nere lucide che contrastavano con la suola scarlatta. Isabella faceva qualche passo avanti facendo ticchettare i tacchi”. C’è un gendarme vaticano, il sovrastante Michele Rondine, colui che deve indagare sull’atroce omicidio di padre Cordara, un personaggio molto cinico che ne fa subito un problema di ferie ma del resto “sono un gendarme vaticano e mi paga il Principale”. Rondine è un gesuita e questa è palesemente una strizzata d’occhio a Guglielmo di Baskerville cui Umberto Eco affidò la soluzione dei delitti ne Il Nome della Rosa. Il terzo detective è padre John Marlon, amico e confidente di Cordara, colui che per primo intuisce che nel libriccino che il defunto gesuita stava leggendo e unico vero testimone del delitto, sta la chiave del giallo. Proprio per questo Rondine è convinto che l’assassino o il mandante sia lo stesso Marlon.
Ci sarebbe tanto da spoilerare ma non lo facciamo. Tre minime note a margine.

I tre s’incontrano per la prima volta, nel senso che capiscono che dovranno lavorare insieme, nella sala Clementina, anticamera dello studio di Sua Santità il Pontefice Ignazio I che diventa quindi il primo mandante dell’indagine. È un’introduzione a suo modo geniale e scenografica. E siamo più o meno a metà romanzo… La seconda: il romanzo è avvincente, pieno di rimandi storici, complesso e capita spesso di dover tornare indietro in cerca di un indizio. Ma è scritto con un corpo così piccolo che la stessa lettura diventa complicata. Si suggerisce una ristampa in corpo almeno 22-24. Infine, la chiusa del romanzo suggerisce il sequel. Anzi, lo pretende. Anche perché tra Rondine e Isabella non può finire così.

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Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.