La sfida alla Cina
Estremo Oriente vero focus di Trump, Lupis: “Qui l’America vuole fermare il Dragone”
Luoghi fuori dagli interessi e dalle mappe europee, eppure centrali nella sfida tra Pechino e Washington. Ad approfondire il loro ruolo è il giornalista Marco Lupis nel suo ultimo libro “Ai confini del mondo”
«I giochi veri sono lì, in Estremo oriente. Quello è l’imperativo categorico di Trump», Marco Lupis, giornalista, inviato di guerra ed esperto di Estremo Oriente, si sente di dover partire da Washington per analizzare una macroarea spesso poco osservata dagli europei. «Al contrario, per il presidente Usa quella è la sfera di maggiore tensione. Peccato che si sia dovuto occupare di altre emergenze, illudendosi e illudendoci che le avrebbe risolte in pochi giorni. Tuttavia, al confronto diretto ci arriveremo».
Lupis, il recente e rapido conflitto tra Thailandia e Cambogia ci fa rendere conto che anche il Sudest asiatico non è un quadrante strategico in questa guerra mondiale a pezzi.
«L’Asia-Pacifico, l’Estremo Oriente in senso lato, è ormai centrale. Gli Stati Uniti, soprattutto con Trump, hanno mostrato chiaramente di voler spostare i propri interessi da Europa e Medio Oriente verso quell’area. Il disimpegno da Nato e Ue è esplicito. E Trump lo ha detto apertamente: il suo vero obiettivo è contenere la Cina».
Salvo poi essere costretto a occuparsi di altro?
«Esatto. Guerre commerciali, Medio Oriente, Ucraina: tutto lo ha distratto dal suo piano principale. Ma l’interesse americano resta lì: nell’Asia-Pacifico. E appena queste emergenze si stabilizzeranno, tornerà a focalizzarsi sulla Cina».
Quindi è vero quello che si percepisce: Trump vorrebbe occuparsi solo di Pechino.
«Faccio solo un esempio. Quando è esplosa la crisi Israele-Iran, Trump ha dovuto spostare la portaerei Nimitz dal Mar Cinese Meridionale al quadrante mediorientale. È stato un segnale forte: ha dovuto lasciare sguarnita l’area che più gli interessa per intervenire a fianco dell’alleato Netanyahu. E non l’ha fatto volentieri».
Parliamo di Sud-est asiatico. La Cina considera quell’area il suo cortile di casa. Ma i Paesi della regione accettano questo ruolo?
«Diciamo obtorto collo. Il Vietnam, da sempre, considera la Cina una rivale. Anche più degli Stati Uniti. Eppure la maggior parte degli investimenti nel Paese è cinese. In Laos è tutto made in China. La Thailandia invece è più ambigua. Fuori dalla sfera d’influenza cinese e poco considerata dagli Usa, si sente marginalizzata. Ecco perché si agita. Le Filippine sono un avamposto americano. Storicamente, culturalmente, politicamente. Ma anche lì ci sono forze interne che spingono per un riavvicinamento alla Cina. Intanto si susseguono scaramucce militari tra Filippine e Cina, ma non solo, sulle isole contese come le Spratly e di cui a noi non arriva la notizia. Insomma, in sintesi, nel Sudest asiatico, le divisioni sono tra chi sta con Pechino e chi no».
Nel tuo ultimo libro, “Ai confini del mondo” (Il Mulino), racconti storie da luoghi di confine, remoti, ma strategici. Una sorta di geopolitica classica, da atlante geografico. Vale ancora lo spazio fisico nel mondo di oggi, dominato dal digitale?
«Sì, eccome. Anche se oggi parliamo di cyberspazio, intelligenza artificiale, reti… alla fine la potenza si manifesta sul territorio. Prendiamo Putin: le sue nostalgie imperiali si traducono in conquiste di territorio fisico. Lo spazio geografico conta, eccome. Il mio libro racconta proprio di queste missioni, che ho fatto in questi vent’anni, per fare il giornalista. Perché questi luoghi “fuori dalle carte geografiche” restano al centro degli interessi politici internazionali».
Facciamo qualche esempio concreto. Un caso ignoto in Europa del conflitto Cina-Usa in scala estremamente ridotta.
«Nauru, nel Pacifico. Un’isola piccolissima che ha vissuto un boom assurdo grazie al guano usato come fertilizzante. Poi è finita l’epoca d’oro, sono diventati poveri, e cosa hanno fatto? Hanno tolto il riconoscimento a Taiwan, che concedevano come altri pochi nella comunità internazionale, e sono passati con la Cina, in cambio di investimenti promessi. Questo per dire che anche un posto microscopico può diventare pedina strategica nella partita tra Pechino e Washington».
E le isole Kurili?
«Anche lì: territorio conteso tra Russia e Giappone. Dopo la Seconda guerra mondiale non fu mai chiarito bene. Oggi fanno parte della Russia, ma il Giappone ne rivendica alcune. È un’altra zona caldissima, in scala. Ma le dinamiche sono le stesse: potere, influenza, identità nazionale. In scala, in questi mondi lontani e piccoli per dimensione, si ripropongono le stesse logiche della politica internazionale che gestiamo tutti i giorni».
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