Il Fondo Unico per lo Spettacolo (FUS) avrebbe dovuto essere uno degli strumenti centrali per sostenere la ripartenza del comparto culturale nel post-pandemia. Invece, a metà 2025, la tanto attesa riforma del FUS resta lettera morta, mentre crescono le critiche su una gestione considerata opaca, autoreferenziale e profondamente iniqua. Il Ministero della Cultura annuncia da anni un cambio di rotta, ma i fatti raccontano altro: le risorse vengono ancora distribuite secondo logiche vecchie, poco trasparenti e penalizzanti per i soggetti emergenti. A beneficiarne, come sempre, sono i grandi enti stabili e i soliti noti. Il FUS è nato nel 1985 con un intento chiaro: garantire pluralismo culturale e sostegno strutturale al mondo dello spettacolo dal vivo e del cinema. Ma oggi, a detta di molti operatori del settore, non risponde più alla realtà dei fatti.

Le graduatorie pubblicate annualmente mostrano un dato costante: oltre il 70% dei finanziamenti è assorbito da meno del 20% dei beneficiari, spesso legati a strutture con solidi agganci politici o posizioni di rendita. In particolare, le fondazioni lirico-sinfoniche, i teatri nazionali e le grandi istituzioni culturali drenano la maggior parte delle risorse, lasciando le compagnie indipendenti e le nuove progettualità ai margini. Nel dibattito sulla riforma del FUS, ciò che manca è una vera riflessione sul ruolo della cultura pubblica nel XXI secolo. Mentre altri Paesi investono in nuove forme di spettacolo, digitale, inclusione e sostenibilità, il sistema italiano resta ancorato a logiche del passato, in cui conta più la continuità del contributo che l’impatto del progetto.

In molti casi, i bandi del FUS sembrano scritti per escludere e non per includere. Le procedure sono complesse, le rendicontazioni spesso sproporzionate per le piccole realtà, e le commissioni di valutazione raramente motivano i punteggi assegnati. Il risultato? Una stagnazione creativa, una crescente disillusione tra gli operatori e una disconnessione totale tra cultura ufficiale e vita reale dei territori. Nel 2023 e 2024 si sono susseguiti tavoli tecnici, consultazioni, audizioni in Commissione Cultura. Ma a oggi, il piano di riforma del FUS 2025 non è stato né approvato né reso pubblico. Il rischio concreto è che si tratti dell’ennesima promessa mancata, mentre il comparto dello spettacolo continua a perdere energie, talenti e credibilità.

Secondo l’Associazione Nazionale dei Teatri Indipendenti, oltre il 40% delle compagnie che hanno presentato domanda nel 2024 non hanno ottenuto nemmeno una risposta motivata. Una prassi che mina ogni fiducia istituzionale e rende impossibile una programmazione seria.
Una riforma seria del FUS non può limitarsi a ritoccare criteri o riallocare fondi. Serve una ridefinizione strutturale del rapporto tra Stato e cultura, tra finanziamento pubblico e responsabilità sociale. Il sistema va aperto alla trasparenza totale, all’innovazione, e a una valutazione indipendente e partecipata. Senza questo cambio di passo, il Fondo Unico dello Spettacolo rischia di rimanere un simbolo di immobilismo istituzionale, che premia la rendita e penalizza il merito. E, soprattutto, rischia di rendere sempre più irrilevante il ruolo dello Stato nella promozione culturale.

Maurizio Pizzuto

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