Sulla questione degli studenti e dei giovani più in generale, che l’accoltellamento della professoressa di Abbiategrasso ha portato alla ribalta delle cronache, vale la pena fare qualche breve e solo apparentemente arbitraria considerazione al netto ovvero di spericolati paragoni con le sparatorie di massa americane, e senza buttarla tutta sui social media che sono invece l’alibi usuale.

È senz’altro vero che chi è cresciuto a pane e social media è abituato ai like, ovvero alla validazione di sé senza deroghe e senza contraddittorio (gli haters sono l’altra faccia estrema della stessa medaglia ma le loro attenzioni vengono quasi esclusivamente riservate ai cosiddetti vip). Il nativo digitale male accetta dunque che qualcuno stigmatizzi un suo comportamento o un risultato, magari non proprio brillante, in una interrogazione o in un compito in classe. È altresì abituato a sentirsi al centro del mondo e a prendere tutto personalmente perché, sempre nei social media, è di sé che parla ed è se stesso che mette in mostra.

Un brutto voto non è la valutazione di una prova fatta male, diventa un affare personalissimo. Gli algoritmi poi non fanno altro che proporci quello che vogliamo sentire, avendo chiare le nostre predilezioni, le nostre convinzioni e perfino le scarpe che ci piace comprare. Validano ciò che pensiamo di già. Di più: nei social tutto si consuma in brevissimo tempo, il ché non sviluppa la capacità di sintesi nei nostri giovani ma invece fa sì che il cosiddetto attention span, sia molto corto. Col risultato che su un’ora di lezione, si può forse contare sull’attenzione degli studenti per non più di una decina di minuti. Tutto vero.

Ma c’è ben di peggio: i giovani di oggi sono vittime di una eccessiva psicologizzazione delle loro vite. A ogni normale manifestazione dell’adolescenza e della giovinezza, è stato disgraziatamente conferito un nome che la trasforma in patologia. Per cui chi è svogliato, diventa depresso, chi fatica a concentrarsi ha un deficit cognitivo, chi si preoccupa per il compito in classe soffre di ansia e così via col risultato che, a forza di farglielo credere, alla fine, qualche malattia mentale la sviluppano davvero anche quelli che starebbero invece benissimo. I nostri giovani vivono dentro un mito di Pigmalione alla rovescia. A forza di dirgli che sono deboli, che il Covid li ha depressi, che soffrono di chissà cosa li facciamo diventare fragili e del tutto incapaci di affrontare la scuola prima e la vita poi. Smettiamola.

La political correctness, poi, nel pur nobile tentativo di promuovere l’inclusività e evitare forme di marginalizzazione, ha consegnato alle nuove generazioni un mondo dai colori sbiaditi dove la libertà di parola non è più qualcosa di scontato, dove le scuole e le università rischiano di diventare luoghi di ortodossia di pensiero e non spazi eterodossi, in cui si impara attraverso sane interlocuzioni tra gruppi che la pensano in maniera diversa. È un mondo, questo, in cui vi è la quasi totale inibizione del pensiero critico e dove certi temi non possono nemmeno più essere affrontati.

Vige una specie di ipersensibilizzazione e iper vigilanza per tutto ciò che non è considerato conforme alla PC-ness e che, come tale, viene censurato aprioristicamente. Scenari folli. E nonostante tutto, questi nostri giovani sono proprio in gamba. Sono in grado di fare più cose contemporaneamente (il multi-tasking), vanno a studiare all’estero (l’Erasmus), si impegnano su battaglie importanti (ecologia e inclusione), hanno un forte spirito imprenditoriale (vogliono fondare startup o diventare famosi YouTuber), parlano l’inglese meglio di quanto non lo parlassimo noi alla loro età, si inventano nuovi lavori, vanno a spalare il fango dopo le alluvioni. Sono bravi e vanno aiutati. Invece li mortifichiamo, li compatiamo, e li costringiamo a sistemi educativi che non parlano più la loro lingua.

La scuola e le famiglie di oggi devono imparare a andare a due velocità. La prima è quella dei valori fondamentali, il rispetto delle persone, dei ruoli, delle regole, delle scadenze, della parola data, la storia, le culture, la contestualizzazione, il valore del merito e dello studio. È necessaria l’autorevolezza e sono necessari professori che fanno i professori e genitori che fanno i genitori. La seconda è la velocità che viene imposta dalla rivoluzione digitale. Se le istituzioni educative non si adeguano e non si attrezzano verranno superate e travolte. E con sé travolgeranno i nostri giovani. Si dirà che tutto questo poco c’entra con il fatto di Abbiategrasso. Forse è così. Ma vale la pena occuparsene seriamente prima che sia troppo tardi.

*Direttrice di Stanford Florence