«Nessun giudice deve farsi condizionare da quello che legge sui giornali, sicuramente può restare amareggiare se una sua decisione viene letta in maniera molto critica ma anche questo fa parte del nostro lavoro». Per Tullio Morello, magistrato della sezione penale del Tribunale di Napoli e per molti anni giudice delle indagini preliminari, «i processi non devono essere mai celebrati sulla stampa, perché senza conoscere tutti gli atti posti a margine di un provvedimento non è possibile avere un approccio tecnico». Per Morello, dunque, il nodo sta nella mediaticità dei processi, e non solo.

«C’è anche una colpa del sistema – aggiunge – che è quella di dare maggiore importanza alla fase delle indagini rispetto alla fase del giudizio». Una sorta di sbilanciamento, dunque, a favore della prima fase dell’iter giudiziario, che corrisponde a quella delle ipotesi e delle ricostruzioni accusatorie, e a scapito della fase del dibattimento vero e proprio, cioè del momento in cui l’accusa viene provata o smentita. «In molti casi accade che la polizia o il pm riservi un’attenzione per la fase preliminare delle indagini diversa rispetto a quella del giudizio. Tuttavia, questo non deve essere letto solo come un punto di colpa per l’investigatore o l’inquirente, ma va letto anche considerando che i tempi del processo sono ormai assolutamente distorti, l’eccessiva durata dei processi è inaccettabile e inevitabilmente comporta una maggiore attenzione per la fase iniziale, che è la più calda. Perché il risultato vero si ha dopo tanti anni quando le cose ormai sono cambiate e non sono nemmeno più gli stessi investigatori a curare l’andamento del processo».

Il giudice Morello centra, quindi, un tema cruciale del dibattito sulla giustizia: la durata dei processi. «Su questo rivolgerei un appello sempre più forte al legislatore affinché si riesca una volta per tutte ad accorciare i tempi dei processi. Una persona, colpevole o innocente che sia, ha diritto a una risposta in tempi ragionevoli, lo dice anche la Costituzione. Ogni processo riguarda vicende umane, non bisogna dimenticarlo». La storia giudiziaria è piena di casi mediatici, di lungaggini processuali che hanno avuto ripercussioni devastanti su vite e carriere di chi ne era protagonista, di errori giudiziari eclatanti.

Morello è figlio del giudice Michele Morello che fu nel collegio della Corte di Appello che assolse Enzo Tortora ponendo fine al calvario giudiziario del noto presentatore. «Anche di fronte ai casi più clamorosi, il giudice non deve mai lasciarsi condizionare. Credo sia importante non innamorarsi dei processi. Io, dopo aver firmato una sentenza, metto da parte il processo cercando di dimenticarmene, di non innamorarmene, anche perché bisogna considerare che ci sono tre gradi di giudizio. Questo è uno degli aspetti su cui insisto di più nel momento della formazione dei colleghi più giovani».

Lavoro difficile quello del giudice, che con le sue decisioni può determinare non solo l’esito di una vicenda giudiziaria ma anche di una o più vite umane. «Un giudice che si fa influenzare dovrebbe solo cambiare lavoro – conclude Morello – Nessun giudice si fa condizionare da un articolo, da una manifestazione, da un qualsiasi tipo di protesta. Cresciamo sapendo che le nostre decisioni per loro natura scontentano qualcuno. Il problema riguarda il modo di riportare le notizie e il clamore che si dà agli arresti e non alle assoluzioni. Se ne discute da tanti anni ma purtroppo sempre con risultati alquanto scarsi».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).