Le intercettazioni erano inutilizzabili, la notizia di reato infondata e il presupposto di partenza, utilizzato per inquadrare la vicenda, sbagliato. Eppure per cinque anni la Procura di Napoli ha portato avanti l’inchiesta su Lorenzo Diana, un filone investigativo nato da una costola dell’indagine, poi archiviata, per concorso esterno in associazione camorristica con riferimento a interessi del clan dei Casalesi sulla metanizzazione dell’Agro aversano. Un filone finalizzato a verificare se Diana, posto che non era l’untore mafioso che si era provato a sostenere che fosse, avesse almeno assegnato incarichi per ottenere da un avvocato il certificato che avrebbe consentito al figlio di iscriversi ad un corso per dirigenti sportivi.

Un filone che si è rivelato un flop, perché è emerso che Diana non assegnò alcun incarico per favorire interessi propri o di terzi, ed è emerso anche che il reato corruttivo ipotizzato dalla Procura non poteva essergli contestato in quanto da presidente del Caan, il Centro agroalimentare di Napoli, Diana non era da considerarsi un pubblico ufficiale essendo il Caan non un ente pubblico bensì un ente di interesse pubblico ma di natura privatistica, come disposto tra l’altro dalla Cassazione che in via incidentale si era pronunciata su alcune istanze di fallimento. Di mezzo poi, in questa vicenda giudiziaria, ci sono stati rimpalli di competenze territoriali tra gli uffici giudiziari di Napoli e quelli di Nola (per via della sede a Volla del Caan) e la questione dell’inutilizzabilità delle intercettazioni telefoniche, perché autorizzate in un procedimento diverso e utilizzate per un reato (l’indagine era nata per abuso d’ufficio, poi modificato in un’ipotesi di corruzione) che non le prevedeva.

Intercettazioni a strascico, dunque, come quelle che la Cassazione a Sezioni Unite ha definitivamente bocciato con la sentenza Cavallo all’inizio 2020 e che nell’indagine su Lorenzo Diana rappresentavano l’unica tesi alla base dell’ipotesi accusatoria che la Procura ha provato a sostenere: si trattava di conversazioni al telefono raccolte nel corso dell’inchiesta sui presunti rapporti tra imprenditori, vertici di Cpl Concordia e camorra nell’ambito del progetto nella zona agro-aversana, quell’inchiesta dalla quale Diana, per l’ipotesi di concorso esterno in associazione camorristica, uscì prosciolto, il caso archiviato. Di mezzo, inoltre, nella vicenda giudiziaria che riguarda l’ex parlamentare di San Cipriano d’Aversa, ci sono finiti anche i dettagli di attività investigative che portarono i carabinieri del Noe a fare acquisizioni di atti negli uffici del Caan ma anche in casa dello stesso Diana, portando via 60 cartelline, in pratica l’archivio che ripercorreva gli anni dedicati all’impegno politico, a quello di più volte componente della Commissione antimafia e all’impegno contro le mafie, in particolare contro la camorra dei Casalesi, che gli è valso la scorta per le minacce del clan ma anche importanti riconoscimenti, incluso il premio nazionale Paolo Borsellino. Quelle cartelline furono recuperate poi ammassate una sull’altra e ricoperte di polvere come le cose che non si usano.

Intanto Diana era già ricoperto del fango mediatico che si genera ogni volta che si crea clamore attorno a un’ipotesi investigativa ancora tutta da dimostrare. Era il 3 luglio 2015: Diana, icona dell’Antimafia, fu raggiunto da una misura interdittiva, caduta subito con le sue dimissioni da presidente del Centro agroalimentare di Napoli, e da un divieto di dimora in Campania, revocato dal Tribunale del Riesame dopo un passaggio di atti tra Napoli e Nola. La conclusione della vicenda giudiziaria, però, è arrivata cinque anni dopo: «Il procedimento in esame non può che essere archiviato» scrive il gip del Tribunale di Napoli, Marco Giordano, disponendo l’altro giorno il proscioglimento di Lorenzo Diana e accogliendo appieno le argomentazioni difensive sostenute dall’avvocato Francesco Picca. «Deve ritenersi infondata la notizia di reato» è la chiosa che boccia del tutto l’iniziativa della Procura.

Le argomentazioni difensive sono state evidenti al punto che lo stesso magistrato Catello Maresca (all’epoca pm, ora passato alla Procura generale e in questi giorni al centro dell’attenzione politica e cittadina per i rumors su una sua possibile candidatura a sindaco di Napoli) ha concluso per l’archiviazione. «Questo vuol dire che ci sono giudici che valutano l’operato della Procura e pm che sanno rivedere le proprie ipotesi iniziali, significa che il sistema ha ancora gli anticorpi. Il problema – commenta l’avvocato Picca – è che questi anticorpi dovrebbero essere tarati su tempi che tengano conto dell’impatto che un’indagine ha sul piano umano, sociale, politico, mediatico, economico. La vicenda di Diana – aggiunge il penalista – trascende quindi dal caso specifico perché tutti sono indagabili e non ci sono aree di impunità, ma quando un soggetto viene indagato è auspicabile un’indagine veloce».

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Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).