La questione è quella eterna del rapporto tra arte e mercato: tra lo snobismo supercilioso di chi immagina una proporzionalità inversa (quanto più un’opera è popolare, tanto meno vale) e il populismo di chi sostiene una proporzionalità diretta (le vendite come testimonianza del valore). A parte le nuove forme di mecenatismo, o le sovvenzioni statali, il mercato alla fine pare che abbia vinto senza combattere: quando in metropolitana si legge, su giganteschi manifesti, che Despacito è stato ascoltato 2,3 miliardi di volte su Spotify, sono pochi a pensare che quel trionfalismo non comporti anche un’affermazione di valore. Se un regista dichiara in tivù che il proprio film ha guadagnato venti milioni di euro nella prima settimana di programmazione, l’applauso che segue è un riconoscimento alla qualità dell’opera. Bisognerebbe avere la lucidità di riconoscere che, storia della cultura alla mano, il successo di un’opera e il suo valore artistico sono variabili indipendenti: esistono opere molto popolari che sono anche belle, opere popolari ma orrende, opere poco apprezzate dal pubblico che sono diventate del classici e opere orrende che fin dall’inizio non hanno avuto nessun riscontro di pubblico.

C’è pure una versione “di sinistra” che tende a trasformare la diffusione di un’opera nel suo valore: è quella di chi pensa che sia compito dell’arte raggiungere il maggior numero di persone per influire positivamente sul costume e sulle idee. E’ curioso che questi nemici dell’élitarismo in estetica siano poi contrarissimi alle forme di propaganda che abbagliano le masse con retoriche roboanti; eppure c’è un’aria di famiglia tra i comizi o i tweet acchiappa-consenso e il bisogno di riassumere lo spessore di un’opera d’arte in una formula elementare, facile da apprendere e da trasmettere. Il bello non si decide a maggioranza, come neppure il vero (Galileo Galilei ne è testimone).

In democrazia la maggioranza decide chi sarà il leader, il mercato incorona le star; ma poteri non democratici (la tecnologia, la finanza, l’emotività dell’inconscio collettivo) cercano di far credere che le star e i leader abbiano dalla loro parte la bellezza e la verità. Non è bene che il giudizio si trasformi in venerazione (i fans !), o in quel meccanismo di profezia che si autoavvera per cui compriamo il libro di cui tutti parlano, ascoltiamo la musica che tutti ascoltano, ripetiamo le frasi che tutti (quelli della nostra fazione) ripetono. Sia la ragione del vero che il sentimento del bello devono venire a patti con la forza del numero, ma giocando d’astuzia (che poi si chiama pedagogia) e senza soccombervi ciecamente.