Politica
Il Ponte sullo Stretto stona con la mitologia della sconfitta permanente, l’apocalisse autolesionista italiana tutta scandalo
Il ponte non è più solo un tragitto di soli 3 chilometri e mezzo. Si trasforma in un oggetto materiale, concreto, quindi dissonante con la mitologia della sconfitta permanente
Ponte sullo Stretto, prima dei lavori sono partiti i pontificatori. Gli specialisti del fuoco di sbarramento preventivo. Più che opere pubbliche, mirano a costruire barricate, fatte di grida d’allarme che evocano ogni tipo di catastrofe. Lo spreco, l’ambiente, la mafia. Come se la politica non servisse proprio a questo, a fare le cose utili a tutti garantendo tutti dagli abusi e dalle illegalità. E anche i giornali si adeguano, con titoli gridati e ansiogeni: “In arrivo pioggia di ricorsi”, “Sarà un ponte fra due deserti”, “Anche la UE vigila”. Vigila, capito? Non è che plaude all’ipotesi che l’Europa diventi finalmente intera.
L’apocalisse che non c’è…
Ma non si era detto per decenni “il ponte sullo Stretto non si farà mai”? Ora che si parte, partono in parallelo gli anatemi. Sia chiaro: questo ponte nessuno è obbligato ad amarlo. Non è un dogma. Ma nessuno dovrebbe essere esentato dal discuterlo nel merito. Cifre, impatti, benefici, rischi. Invece no. Diventa subito un totem da abbattere a colpi di tweet indignati. Il vero ponte diventa quindi un altro, quello fra l’apocalisse annunciata e la pigrizia intellettuale di chi non riesce proprio a uscire dal già visto dei no tav, no tap e no ad ogni alterazione dello status quo. “Costerà 13 miliardi”, si ripete alzando i decibel. Sarebbe appunto questa la sfida da vincere. Invece viene presentata come lo scandalo, il peccato originale da scontare.
Il pregiudizio autolesionista anti-italiano
Tale riflesso condizionato nasce anche da un pregiudizio autolesionista perché anti-italiano. Ciò che si può fare in Danimarca, in Portogallo o in Turchia, per definizione non si può fare da noi. Il ponte più lungo del mondo si farà in Italia? Che pretesa! L’identità nazionale diventa così alibi per l’immobilismo, e l’inabilità a realizzare un dato genetico. È così che un ponte fra Sicilia e Calabria abbandona lo stato di progetto, discutibile e migliorabile, per assumere quello di reato in itinere. Un “delitto di intenzione” degno di scenari distopici alla Minority Report, che però troverebbe il suo degno spazio in un sistema penale che si è serenamente esteso a fattispecie come il concorso esterno, la corruzione ambientale o il voto di scambio.
Il Ponte che stona con la mitologia della sconfitta permanente
Da settembre dovrebbero partire i cantieri, dice il governo con buona dose di ottimismo. Bene, da settembre si critichi e si controlli. Ma basta con le liturgie del no, dietro cui si cela anche una ben precisa rendita di posizione. Una parte della nostra intellighenzia progressista non intende proprio rinunciare a un Sud ostaggio di sé stesso, ad una Sicilia lontana e un po’ maledetta, ad una Calabria gonfia di battaglie simboliche da film neorealista. Altrimenti come potrebbero, gli opinionisti che si sentono eredi di Corrado Alvaro, mantenere il loro mood eternamente polemico e vittimista? Ripensare i collegamenti, l’intermodalità, la logistica, le filiere produttive… Tutto dimenticato. Il ponte non è più solo un tragitto di soli 3 chilometri e mezzo. Si trasforma in un oggetto materiale, concreto, quindi dissonante con la mitologia della sconfitta permanente. E allora meglio picconarlo subito. Salirci sopra prima che ci sia, per l’ennesimo comizio non sulle cose da fare ma su quelle da impedire.
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