Piccola prova, piccola pena. Vale ancora, seppur capovolto, l’antico refrain giudiziario per le richieste di pena per il crollo del ponte Morandi? Era forse prevedibile: le roboanti richieste erano state preannunziate, come rulli di tamburo, da altrettanti promo in ottica di progressiva, crescente spettacolarizzazione. Indagine pletorica, maglie della rete tese a raccogliere il maggior numero di imputati possibile, tranne quei pochi con posizioni funzionali in ottica di accusa, mezzi eccezionali, atteggiamenti inquisitori, con tanto di stigmate anticipate. Un lunghissimo incidente probatorio articolato in due tempi.

Una serie di capi di accusa articolati in maniera monstre lungo centinaia di pagine, incentrati sul credo occhiuto, racchiuso nel duplice slogan: “tutti hanno cooperato” a far cadere il ponte, sulla base di una “grande omissione”, facenti perno su una lettura della colpa penale e della cooperazione delle persone nel reato basata su concetti extreme. Decine di udienze per sostenere il rinvio a giudizio con sprezzanti opinioni di colpevolezza, un dibattimento pletorico preceduto da una memoria dell’accusa di migliaia di pagine e innumerevoli allegati multimediali simil-requisitoria scritta al buio, istruttoria aperta da coups de théâtre tali da far impallidire trasmissioni trash della tv del dolore, con elenco dei nomi delle vittime del crollo scandito come campane a morto. Conduzione dell’accusa con metodi, toni, parole, messaggi, gesti platealmente inquisitori, costantemente accompagnata da un battage mediatico che funge da permanente colonna sonora. Clima locale anticipatamente colpevolista, in ragione del comune sentimento di dolore, costantemente alimentato e descritto come “ferita ancora aperta”.

A ben vedere, le cose starebbero in maniera ben più complicata, le responsabilità molto meno lampanti, le prove ben più fragili e gracili di ciò che si vuole far apparire. Ogni tritacarne mediatico-giudiziario dovrebbe lasciar spazio ai distinguo, alla pacata attenzione, alle faticose scelte nel percorrere gli impegnativi itinerari della prova e del giudizio, come più volte lasciato intravedere dal tribunale. Per l’accusa, invece, scelta di campo ambiziosa e prepotente: all in, mano pesante, voglia di sanzioni esemplari salvo per i reati già prescritti. Si alza al massimo l’asticella dello scontro, si scarica sui giudici ogni responsabilità. Modi di esercitare l’azione assai partisan, eppure dietro al paravento di chissà quale “cultura della giurisdizione”. Fallacia erroneamente alimentata dall’attuale assetto ordinamentale del P.M.

Alla difesa l’arduo compito: rendere di nuovo “normale”, per fatti singoli, un processo Mammuth esibito in un circo violentemente colpevolista. Ai giudici l’immane peso: emettere finalmente “un giudizio dell’uomo”, per fatti singoli, resistendo alla pressione del “risultato” annunziato, con attese fin troppo forti.

Luca Marafioti

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