Tre anni. Un tempo già sufficientemente lungo per non tenere in ansia sopravvissuti e congiunti delle vittime. Con un processo che ancora si staglia in lontananza e dozzine di periti al lavoro. Con un processo con forse centinaia di parti civili, qualche decina di imputati, molti dei quali potrebbero essere eccellenti e, quindi, provvisti di difese agguerrite e combattive. La posta in palio è troppo alta perché si possa pensare a un percorso netto, senza intoppi. Sarà, com’è giusto che sia, una battaglia campale, consumata a colpi di perizie e consulenze, con questioni tecniche da risolvere che farebbero tremare i polsi a qualunque tribunale.

Il crollo del ponte di Genova rischia di portarsi dietro, insieme a tanti, troppi innocenti, anche un pezzo di quel che resta della credibilità della giustizia italiana. Lo si è visto in altre occasioni, per altre catastrofi, il processo penale non è il luogo ideale per accertare fatti di questa complessità. Conosce limiti e difficoltà obiettive. Che lo si debba celebrare, che si debba tentare di farlo è indiscutibile, il tema è se poi ci si riesce; se le promesse non saranno infrante dalla mastodontica difficoltà di stabilire esattamente cosa sia successo il 14 agosto 2018. Ed esattamente, vuol dire proprio con la massima precisione, non a spanne, ma oltre ogni ragionevole dubbio come recita il codice. Perché, diciamolo con franchezza, a occhio e croce ognuno si è fatto un’opinione su quanto è capitato tra le campate di quel fatiscente ammasso di cemento e ferro, ma tutto ciò non vale (non può) valere nulla in un’aula di giustizia. Tra gli scranni e i banchi del tribunale ci vorrà tanto, ma tanto tempo per stabilire per ciascun imputato, ruolo e responsabilità, per chiarire il contributo concretamente dato al crollo, per soppesarlo alla luce delle perizie e delle controperizie.

Un incubo, soprattutto se si dovesse arrivare al dibattimento in un clima mediatico come per una sorta di Norimberga contro il sistema di gestione e di concessione delle autostrade italiane, così come da qualche parte si auspica da anni. A Genova, tra vittime e parenti resi – non senza una buona dose di cinismo – preoccupati e sospettosi dalla riforma della prescrizione, la ministra della Giustizia si è fatta carico di dare la certezza che il processo non sparirà tra i flutti della prescrizione o della improcedibilità. Un impegno solenne, una promessa che implica che il ministero di via Arenula farà tutto quanto in suo potere per assicurare una navigazione sicura. Non mancheranno cancellieri, aule, videoregistrazioni, ma qui il Guardasigilli si deve fermare. Poi spetterà al tribunale il compito di arrivare a una sentenza e alla corte d’appello la missione di valutare se quella decisione sia stata giusta e infine alla Cassazione di stabilire se la legittimità sia stata rispettata o violata. La ministra Cartabia ha solennemente promesso un processo utile, non una condanna però. Non ha ceduto di un millimetro sul terreno del populismo facile.

È evidente che tanti, troppi vorrebbero vedere quel verdetto già scritto e un po’ spaventa l’idea che il Parco del ricordo che si realizzerà sui luoghi della tragedia genovese servirà anche a documentare le fasi del processo, come pur annunciato a progetto approvato. Quasi possa esistere un cordone ombelicale inscindibile tra le morti e la condanna dei carnefici. E qui torna, in sedicesimi e in punta di piedi, la storia più terribile dell’umanità in cui le scene del dolore più straziante di un lager non possono più andare disgiunte dalla punizione esemplare dei massacratori, dall’immagine dei gerarchi a Norimberga o di Eichmann a Gerusalemme con le sue grandi cuffie sul capo.

Un processo nel Terzo Millennio, in un paese civile, malgrado tutto e finanche a dispetto dei fotogrammi e delle urla di quel crollo terribile di tre anni or sono, non può rappresentare il solo metro per giudicare quella vicenda e trarne le dovute conseguenze politiche. Se anche tutti fossero assolti e se anche non si trovasse alcun colpevole, non si dovrebbe gridare allo scandalo o al tradimento. Il processo si confronta con le prove, con le fatalità, con la capacità delle parti di far prevalere le proprie tesi, con la presunzione d’innocenza che per essere vinta vuole argomenti testardi e non slogan e propaganda. Le vittime del Polcevera e i loro parenti meritano rispetto e verità, tra cui quella di sapere che il processo non vedrà carnefici alla sbarra con il cappio delle condanne al collo, ma pur sempre cittadini da giudicare con tutta la serenità e la terzietà che sono necessarie. La dea che regge la bilancia per questo è bendata.