Arturo Diaconale, che non è più con noi da due giorni, è stato salutato ieri da tanti amici, da tante persone che lo hanno stimato e apprezzato. Come grande giornalista, come grande liberale, come attento politico e anche come appassionato sportivo. Io amo ricordarlo come garantista, cioè come persona perbene, come sono coloro che hanno a cuore i diritti di tutti e che sanno, che hanno saputo mettere il proprio corpo, e la propria vita con i sentimenti e le contraddizioni, nella difesa di chi la pensa in modo diverso.

Non è un caso che Arturo e io ci siamo conosciuti non nel partito liberale (pur avendo io dato, a ventun’anni, il mio primo voto a Malagodi) né in nessuno dei giornali e televisioni in cui lui ha lavorato, visto che io sono stata per vent’anni al Manifesto, luogo in cui si vedeva come fumo negli occhi Il Giornale di Montanelli. E tralasciamo i campi di San Siro, dove io già ragazzina tifavo per Gianni Rivera e l’Olimpico della Lazio che fu il mondo del tifoso Diaconale. Nulla di tutto ciò ci ha avvicinati, pure fu nel mondo radicale e antiproibizionista (quello più difficile da comunicare e far comprendere) che il nostro incontro fu una sintonia totale. L’amore per la giustizia dei diritti, da me spesso gridata, da lui offerta con la forza tranquilla di chi sa coltivare il dubbio insieme alle certezze. Quando nel 2014 propose il suo “J’accuse!” e fondò il Tribunale Dreyfus “per le vittime della malagiustizia”, seppe sintetizzare, da bravo giornalista, in quindici righe, il dipinto dell’Italia in cui pareva impossibile «alcuna forma di rinnovamento e di cambiamento del sistema in crisi». Quelle quindici righe, e le parole che fanno da capofila ai pensieri, sono un vero programma politico sulla giustizia. Denunciano, prima di tutto, il fatto che la crisi della democrazia e dell’economia in Italia derivano dalla degenerazione del “sistema giustizia”. Un punto fermo.

Politicizzazione della magistratura e rinuncia da parte della politica al proprio ruolo in favore delle toghe, prima di tutto, insieme a una quantità desolante di errori giudiziari per cui nessun magistrato paga mai, e di limitazione della funzione della difesa, insieme a un uso spropositato di intercettazioni telefoniche e ambientali fanno del processo un vero luogo di pena anticipata. Come conseguenza di questa distorsione, abbiamo un uso smodato della custodia cautelare in carcere (40% del totale dei detenuti) e prigioni-lager per le quali l’Italia è stata più volte condannata da sentenze e sanzioni dell’Unione Europea, che considera il nostro Paese un luogo di scarsa civiltà giuridica e privo delle garanzie costituzionali per i cittadini.

In questo quadro, Arturo Diaconale, da bravo liberale, non aveva scordato l’aspetto economico, collegando alla degenerazione della giustizia il ristagno e il soffocamento della libertà economiche da parte del modesto funzionamento amministrativo soffocato dalla burocrazia. Tutti ostacoli che bloccano la crescita e lo sviluppo del Paese, la possibilità di mercati liberi e competitivi e gli investimenti stranieri. La lunghezza e la farraginosità del processo civile, il timore di inchieste penali, che spesso finiscono nel nulla ma dopo molti anni, tengono da tempo lontani gli investitori degli altri Paesi.

La debolezza della classe politica (oggi più che mai), sempre subordinata alla magistratura (pur se oggi indebolita a sua volta) e ai potentati bancari e finanziari, chiudono il cerchio. Contro tutto ciò Arturo Diaconale aveva per una volta nella sua vita di liberale, alzato la voce, gridando “J’accuse” e fondando il suo – nostro – tribunale Dreyfus per le vittime della malagiustizia. Dopo Marco Pannella, abbiamo perso anche lui. Ci manca già. E ha molto senso ricordare quelle quindici righe e tenerle sempre sulla scrivania.

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Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.