Sono passati trent’anni dalla morte del deputato socialista Sergio Moroni, che destò tanto clamore per il modo in cui avvenne — il suicidio — e per il contesto politico-giudiziario in cui si svolse. Il suicidio di Sergio Moroni pesa sulla coscienza dei pm del pool Mani Pulite, di alcuni giornalisti che si sbizzarrirono scrivendo articoli di una cattiveria inaudita — come per il caso Tortora, da cui non impararono la lezione di non condannare a priori per partito preso — e del popolo dei fax, dei manifestanti felici e contenti sotto il palazzo di giustizia di Milano, inneggiando “l’eroe” Antonio Di Pietro – il cui accanimento giudiziario era paragonabile a quello di Torquemada e Vysinskij messi insieme- come se avessero vinto un terno al lotto.

La pietà non abitava nelle loro coscienze. Restano nella storia di Mani Pulite le parole malvagie del sostituto procuratore Gerardo D’Ambrosio, comunista tutto d’un pezzo, poi, eletto in Parlamento nelle liste del Partito democratico: «C’è ancora qualcuno che per la vergogna si suicida». All’epoca dei fatti era il numero due del pool milanese che indagava sull’illecito finanziamento ai partiti e sulle tangenti. I pm di Mani Pulite inviavano le richieste di arresto degli indagati al gip Italo Ghitti, che, incurante, firmava le custodie cautelari senza neppure “leggere e scrivere”. Il giudice si attenne allo stesso registro — che non mutò mai — a partire dall’arresto per corruzione del presidente del Pio Albergo Trivulzio. Mario Chiesa fu il primo arrestato; dopodiché gli arresti non si contarono più.

Crollò la Prima Repubblica, seppellendo la classe politica e di governo del pentapartito, mentre furono salvati e legittimati i post-comunisti orfani dell’Urss e gli ex missini in odore di Repubblica di Salò. Per miracolo la sinistra Dc sfuggì al disastro: non si sa a quale santo si votò. Ma chi giocò sporco, di sponda, fu soprattutto la stampa, scritta e parlata. Accanto al pool giudiziario operava un vero e proprio “pool giornalistico”: la corazzata del Corriere della Sera, scortata dagli incrociatori de La Stampa, de la Repubblica e de l’Unità. Alcuni di quei giornalisti, col tempo, hanno ammesso i propri errori; altri recitano ancora la parte degli smemorati di Collegno. Il 2 settembre 1992, Sergio Moroni, con un colpo di fucile nella cantina di casa, si tolse la vita, dopo aver ricevuto due avvisi di garanzia dalla procura di Milano, per dazione ambientale. A capo della procura c’era l’algido Francesco Saverio Borrelli: un Saint Just napoletano – milanese in sedicesimo con velleità presidenziali stroncate dal “perfido” inquilino del Quirinale, Oscar Luigi Scalfaro. Moroni era un deputato socialista del collegio Bergamo-Brescia e aveva ricoperto incarichi di responsabilità all’interno del partito; fu anche segretario regionale del PSI della Lombardia. Il caso Moroni non fu un fatto isolato: si contarono decine e decine di vittime, morte per mali incurabili o per suicidio. Vale la pena ricordare la morte tragica del presidente dell’Eni, Gabriele Cagliari, che nel carcere di San Vittore si tolse la vita soffocandosi con una busta di plastica, e il suicidio di Raul Gardini, che si sparò nella sua abitazione di Milano il giorno in cui era stato convocato da Di Pietro, per essere interrogato.

Erano tempi di guerra a bassa frequenza, dominati da una magistratura in veste giacobina e da un popolo italiano trasformato nelle tricoteuses della Rivoluzione francese. Nei confronti di Moroni l’accanimento fu spietato: lo colpirono da vivo e, peggio ancora, tentarono di falsificarne la memoria da morto. Eppure la lettera che il parlamentare socialista indirizzò all’allora presidente della Camera, Giorgio Napolitano, con tono pacato, con inflessione partenopea, ma con una certa inclinazione al turbamento, rimane incisa sul marmo: «Ma quando la parola è flebile, non resta che il gesto». Un j’accuse contro il giustizialismo della magistratura, tanto feroce negli anni di Tangentopoli, quanto inspiegabilmente sopito per decenni, durante i quali la corruzione aveva prosperato indisturbata. Tutti erano a conoscenza del finanziamento illegale dei partiti, come denunciò Bettino Craxi alla Camera dei deputati, sfidando i colleghi a smentire. Ma nessuno fiatò.

Della morte di Moroni, Bettino pianse come un bambino. Il suicidio suscitò sgomento, ma il bello, anzi il brutto ancora doveva arrivare. E Moroni, lungimirante, lo vaticinò: ”Non credo che questo nostro Paese costruirà il futuro che si merita coltivando un clima di pogrom nei confronti della classe politica”. Di là da qualche anno ci fu – come visto – il crollo della Prima repubblica, sparì il sistema dei partiti, la debolezza della politica portò a Palazzo Chigi l’imprenditore, Silvio Berlusconi e poi, di seguito, la slavina populista e sovranista nelle sue diverse versioni. Sergio Moroni con la sua lettera denunziò la politica con i suoi vizi e poche virtù e il giustizialismo della magistratura, però, credeva “in un cambiamento radicale del modo di essere del nostro paese”, ma, a distanza di alcuni decenni, invece, vinse il gattopardo: cambiare tutto per non cambiare niente. Insomma, Mani pulite è stata una falsa rivoluzione.