Giuseppe Caterini scriveva nel 1973 che la Giustizia è come un organetto, che si apre si chiude, si concentra e si allunga, “c’assicunnu di cu soni/fa mazurchi o tirantelle”. Più che una mazurca o una tarantella la sua storia ricorda però qualcosa di comunque folklorico, popolare, ma meno arzillo: più una marcia, di quelle ridondanti. Il sindaco geometra e poeta moriva nel 2016, ancora in corso il processo in cui era stato coinvolto, dopo sette anni di calvario: una marcia. L’organetto si era allungato a dismisura, come racconta il libro – che ripercorre un particolare per discutere e ridiscutere il generale – scritto da Morena Gallo, giornalista di cronaca giudiziaria. Si intitola La Chiamano Giustizia, sottotitolo: Ma è ciò che il giudice ha mangiato a colazione (Pacini Editore).

Caterini era stato eletto nel 2007. Cresciuto a Laino Borgo, quasi duemila abitanti, provincia di Cosenza, nel Parco del Pollino, terra di rafting e “terra di iuorni mia cchiù bbelli”, come scriveva il sindaco geometra, con una passione per le materie umanistiche, e quindi poeta. Fu Presidente dell’ordine provinciale e poi regionale di categoria per 40 anni. Giornalista, direttore della rivista di categoria La Stadia, tra i consiglieri della Cassa Nazionale e poi vice Presidente. Uomo di sinistra, socialista, riformista, aveva conosciuto un altro sindaco poeta, Rocco Scotellaro, e frequentato il costituente Franco Mancini. Aveva ricevuto la carica di Commendatore e di Grand’Ufficiale dal Presidente della Repubblica. Al paese, con la tipica stizza, per i suoi incarichi a Roma lo chiamavano “ministro”. Incensurato. Si era sposato nel 1962 con Adele, morta per una grave malattia nel 2007, proprio nei mesi in cui la candidatura a sindaco di Caterini si andava rafforzando.

E fu prima una tromba che l’organetto a suonare in questa storia: l’Inno d’Italia intonato da un sostenitore entusiasta la sera delle elezioni, quando il geometra e poeta divenne sindaco dopo 50 anni all’opposizione. “Aria di cambiamento”, l’uomo era considerato un “alieno”. Aveva quindi rinunciato alla sua indennità e fatto aprire un oblò su tutte le porte del comune: forma della trasparenza di un’amministrazione che si sarebbe mossa nel segno di “austerità e volontariato”.

Dopo la tromba aveva suonato però il citofono: all’alba del 9 luglio 2019, quando Giuseppe Caterini e il figlio Mario vennero svegliati dai carabinieri. C’era un mandato di arresto per il primo cittadino. Mario Caterini leggeva e non capiva. Inizialmente volevano trasportare l’indagato a Rende, dove ritenevano che il sindaco fosse residente: una topica clamorosa dei militari. Mario Caterini svela la proposta, che “se il sindaco si fosse dimesso, sarebbe stato subito liberato, visto il venir meno delle supposte esigenze cautelari”. L’ordinanza sarebbe comunque scaduta dopo venti giorni e Caterini avrebbe continuato a fare il sindaco.

Ma di cosa era accusato? L’indagine era della Procura di Castrovillari. Caterini aveva preteso delle prestazioni gratuite a favore del Comune e aveva costretto una ditta pugliese a sciogliere il contratto di subappalto con la ditta locale per la manutenzione dell’impianto elettrico. Un appalto mai autorizzato dal comune e quindi di per sé illegale. Sergio Moccia, Emerito di Diritto penale nell’Università di Napoli Federico II, interpellato dall’autrice del libro in un’intervista in appendice – insieme con i figli del protagonista – osserva che Caterini aveva l’obbligo di intervenire: il subappalto era di per sé un reato, come da legge Rognoni-La Torre del 1982.

A denunciare era stato chi si era preso la briga di registrare, autonomamente, personalmente decine e decine di persone, tranne lo stesso sindaco e di suonare l’Inno d’Italia all’elezione del geometra poeta. Un elettore deluso, insomma; il titolare della quella ditta di manutenzione in questione. È quindi una storia che compenetra diversi perimetri: la piccola Italia, decentrata e spopolata, il Sud, e poi la banda, il maresciallo, i funzionari comunali, i disservizi, le vecchie ruggini, l’ambiente con la querelle sulla Centrale del Mercure, le polemiche sulla statua da mettere dove e quando e sulla piazza da intestare a chi e come. Ma soprattutto la Giustizia, la separazione delle carriere e la responsabilità dei magistrati, il populismo, la mania delle intercettazioni e l’abuso della carcerazione preventiva, la lungaggine dei processi, il peso morale attribuito alla pena, l’intervento salvifico delle toghe.

La campana ha suonato quindi per Giuseppe Caterini nel 2016. Lui che aveva paragonato la Giustizia a un organetto aveva avuto comunque la fiducia per il Secondo Grado: in primo Grado era stato clamorosamente condannato – pur con due assoluzioni – e si era quindi dimesso dal Comune. Era stanco: si era ammalato, operato due volte. Era stato infatti rieletto nel frattempo. Nell’ambito del processo non era stato sentito un testimone intervistato invece da Morena Gallo. Un caso emblematico, come ricorda il giornalista Alessandro Barbano nella prefazione: in Italia un imputato su tre viene assolto in primo grado, uno su due di fronte al giudice monocratico; un milione e mezzo di indagati in media ogni dieci anni è assolto. Altro che mazurche o tarantelle, una ballata per niente allegra: quello che il giudice ha suonato a colazione, pranzo e cena.

Antonio Lamorte

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