«La Dc è come un vetro infrangibile. Quando si rompe va in mille pezzi e non è più ricomponibile». Le parole sono di Guido Bodrato, scomparso qualche settimana fa e uno degli ultimi grandi testimoni del cattolicesimo democratico italiano e leader indiscusso della Dc e della sua sinistra interna. Parole semplici, le sue, ma essenziali e come sempre intelligenti che racchiudono una profonda verità. E cioè la DC – che ha chiuso i battenti proprio 30 anni fa in un torrido giorno di luglio a Roma – è stata un «fatto storico».

Ovvero un prodotto politico concreto di una precisa ed irripetibile fase storica italiana. Non a caso continuano ad esistere i «democristiani» ma non esiste più la DC. E questo per la semplice ragione che i valori, la cultura, i principi e lo «stile» dei democristiani continuano ad essere straordinariamente attuali e contemporanei ma la forma partito è frutto e conseguenza di una stagione ormai storicizzata e consegnata agli archivi. Cioè agli storici. Com’è giusto che sia. E, pertanto, tutti i tentativi – goffi e anche un po’ patetici – di candidarsi ad eredi esclusivi o parziali della Dc – oltre ad essere un’operazione irrituale e anti storica – rende anche un cattivo servizio al ruolo politico, culturale, istituzionale e di governo esercitato per quasi 50 anni dalla Democrazia Cristiana nel nostro Paese.

Certo, non mancano – tutt’oggi – gli storici detrattori della DC. Cioè tutti coloro che, ieri come oggi, continuano ad individuare nella Dc e nella sua straordinaria classe dirigente una esperienza o «criminale» o semplicemente «nefasta» per la salute della democrazia italiana, per la credibilità delle nostre istituzioni e per il governo del paese. Una narrazione che, appunto ieri come oggi, è riconducibile prevalentemente al campo della sinistra politica, culturale, editoriale, intellettuale ed accademica. Un campo che, purtroppo, e al di là delle frasi di circostanza, non riesce a spogliarsi di questa caricatura, strumentale e rancorosa.

Eppure la storia e l’esperienza della Dc non solo hanno garantito una lunga stagione di democrazia, di benessere e di crescita all’intero paese in un periodo carico di difficoltà e di contraddizioni ma, soprattutto, hanno saputo dispiegare – seppur tra alti e basi – un «progetto di società» capace di coniugare sviluppo e giustizia sociale, libertà e autonomia, dritti e doveri, pluralismo e rispetto dell’azione di governo.

Insomma, una visione complessiva della società che affondava le sue radici nel patrimonio culturale e storico del cattolicesimo democratico, popolare e sociale. Per dirla con parole più semplici, nella storia e nell’esperienza del cattolicesimo politico italiano. Il tutto, come ovvio, con una classe dirigente di grande autorevolezza e di rara qualità.

È appena sufficiente scorrere i nomi e i cognomi dei leader storici delle tanto vituperate «correnti» – che, è sempre bene ricordarlo, erano strumenti democratici di elaborazione politica e culturale e, soprattutto, rappresentavano pezzi di società e legittimi interessi sociali – per rendersi conto che la classe dirigente della Dc non è più stata eguagliata nel tempo. Certo, sarebbe offensivo anche solo il confronto con quella della seconda repubblica per non parlare del «niente della politica», per dirla con Mino Martinazzoli, che ha caratterizzato la stagione populista, anti politica, demagogica e qualunquista di questi ultimi anni. Con l’aggiunta della deriva di impronta trasformistica e opportunistica.

Ecco perché, se le parole di Bodrato pronunciate tempo fa sono e restano inappellabili, è compito e dovere di noi cattolici democratici, popolari e sociali far sì che, oggi, la storia e l’esperienza della Dc non continuino ad essere infangati e derisi da un lato e che dall’altro quei valori e quella cultura abbiano piena ed attiva cittadinanza nella cittadella politica italiana. Non per il bene dei cattolici democratici e popolari ma, soprattutto, per la qualità della nostra democrazia, per la credibilità delle nostre istituzioni e per la stessa efficacia dell’azione di governo.