I dati pubblicati ieri dall’Ocse sono molto chiari: in Italia, più che in tutti gli altri Paesi, gli stipendi non si sono adeguati all’inflazione. Tranne in un caso: i salari minimi, che sono gli unici che crescono più dei prezzi. Mentre a non crescere sono quelli alti, appiattendo quelli medi. Eppure di fronte a questi dati quell’opposizione che, non più al governo, ha presentato una proposta per il salario minimo a 9 euro, ha subito commentato: «Vedete avevamo ragione, serve il salario minimo». Ma i dati Ocse dicono altro: non è il salario minimo il problema, ma il ceto medio che non ha più un salario adeguato.

«Alla fine del 2022 – avverte l’organismo internazionale – i salari reali erano calati del 7% rispetto al periodo precedente la pandemia. La discesa è continuata nel primo trimestre del 2023, con una diminuzione su base annua del 7,5%». Gli stipendi stanno lentamente inseguendo l’inflazione, ma senza riuscire a tenerne il passo. Per un verso questo è frutto proprio del fatto che il nostro Paese è tra quelli con la più alta presenza di contrattazione collettiva, che fisiologicamente non riesce ad essere al tempo con l’inflazione.

I tempi delle trattative sindacali sono tipicamente lunghi e i contratti non possono essere rinnovati prima di ogni crisi. Ma nonostante questo sono proprio i contratti nazionali che hanno reso forte il mercato del lavoro nel nostro Paese. Lì dove i sindacati ovviamente hanno funzionato. Come ad esempio la metalmeccanica, che grazie ai rappresentati confederali delle tute blu, federmeccanica, ma anche il contratto specifico Stellantis (nato dalla visione di Marchionne quando decise di uscire da Confindustria) hanno un livello medio superiore agli 11 euro. È vero però che negli ultimi anni i confederali hanno perso sempre maggior peso, anche schiacciati dai sindacati autonomi e gialli.

L’Ocse ha messo in guardia l’Italia sui «significativi ritardi» nel rinnovo dei contratti collettivi. Nella nota dedicata al nostro Paese sulle Prospettive sulla disoccupazione Ocse 2023, l’organismo si mostra fiducioso su un futuro aumento dei salari del lavoro dipendente. «L’indicizzazione dei contratti collettivi alle previsioni Istat dell’inflazione al netto dei beni energetici importati, recentemente riviste significativamente al rialzo, fa pensare che i minimi tabellari potranno recuperare parte del terreno perduto nei prossimi trimestri», sottolinea l’Ocse aggiungendo tuttavia che «i significativi ritardi nel rinnovo dei contratti collettivi (oltre il 50% dei lavoratori è coperto da un contratto scaduto da oltre due anni) rischiano di prolungare la perdita di potere d’acquisto per molti lavoratori».

Ancora una volta però parliamo di contratti in essere, quindi non di salario minimo, ma, come dicevamo, di quelli medi da adeguare. Secondo le proiezioni OCSE, in Italia i salari nominali aumenteranno del 3,7% nel 2023 e del 3,5% nel 2024, mentre l’inflazione dovrebbe attestarsi al 6,4% nel 2023 e al 3% nel 2024.

In media nei Paesi Ocse i salari minimi nominali, osserva l’organizzazione internazionale, «hanno tenuto il passo dell’inflazione grazie a degli aumenti discrezionali o grazie a dei meccanismi di indicizzazione. Al contrario, le retribuzioni negoziate nell’ambito dei contratti collettivi tra i datori di lavoro e i sindacati sono diminuite in termini reali, a causa del ritardo legato alla natura scaglionata e relativamente poco frequente delle trattative salariali», anche se si prevede una fase di recupero nei prossimi trimestri. Per i salari medi il calo è stato del 7,5% e per le paghe più elevate del 6%, comunque sempre sopra le medie Ocse (3,8% e 4,8% rispettivamente). La contrattazione collettiva può contribuire a mitigare la perdita di potere d’acquisto dei lavoratori e garantire una più equa distribuzione dei costi dell’inflazione tra imprese e lavoratori, evitando una spirale prezzi-salari, evidenzia ancora lo studio. I dati suggeriscono, infatti, che c’è lo spazio per assorbire aumenti salariali, almeno per i lavoratori a bassa retribuzione, considerando che in media nell’ocra i profitti unitari tra fine 2019 e inizio 2023 sono aumentati del 21%, mentre il costo unitario del lavoro è salito del 15,6%.

Annarita Digiorgio

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