“Da uno dei tanti soldati in guerra”. Firma coì la sua lettera Giovanni. Perché la guerra non è finita. Ha soltanto cambiato intensità, forma, è diventata un’altra, diversa. Ma quella contro il coronavirus non può che considerarsi tale: una guerra, anche nella Fase 2. Giovanni è un giovane infermiere calabrese in servizio al San Raffaele di Milano. Ha affidato le sue parole a una lettera pubblicata da Nursetimes.org. Uno sfogo che da personale diventa professionale. Una critica perfino, in qualche passaggio – “La colpa è solo nostra, del cittadino cocciuto che ha iniziato a collaborare quando ormai era troppo tardi, quando ormai il Covid-19 aveva già invaso i polmoni” – ma soprattutto il racconto della quotidianità in prima linea. Una prima linea compatta di infermieri, medici, oss, operatori sanitari, professionisti della salute, che non esita a definire soldati. E che a causa di tutte i dispositivi di sicurezza fanno perfino fatica a riconoscersi.

Un esercito senza gerarchie e stellette: “Esistono solamente un doppio camice, una cuffia, un paio di occhiali, una visiera, dei tripli paia di guanti, dei calzari, delle doppie mascherine, che fanno di noi dei robot da guerra, dei robot che stanno lottando per distruggere tutto ciò. Quelle maledette mascherine che, giorno dopo giorno, lacerano il nostro viso. Ci lasciano un segno che, per la prima mezz’ora dopo il turno di lavoro, ci identifica dal resto della massa. Quelle maledette i cui elastici ci piagano il volto e quel maledetto sostegno posto al centro ci decubita il naso”.

“Nulla si poteva evitare perché, si sa, il mondo gira”, continua Giovanni. E parla anche della gratitudine delle persone: degli applausi, degli striscioni, dei tributi. “Però siamo sempre noi, quelli che fino a ieri venivano aggrediti, vessati, denigrati, ingiuriati … Tutto ciò, da un certo punto di vista, è alquanto ridicolo. Fino a ieri la nostra professione era svalutata e svenduta. Basti pensare che c’è chi corre dietro un pallone e guadagna i milioni, e chi, come me e come molti miei conoscenti, coetanei, si trova costretto ad abbandonare il proprio tetto, la propria famiglia, i propri affetti, e si ritrova in una città che neanche conosce, dove non ci sarà il pranzo di Natale in famiglia, dove non ci sarà lo scambio dei regali, dove non ci sarà la Pasqua in serenità, dove spegnerai le candeline di compleanno da solo. Tutto ciò per andare a lavorare, per realizzarsi, anche se il guadagno non compenserà mai la salute persa e i sacrifici compiuti”. L’infermiere ricorda di come si tratti di una professione nella quale si è esposti a tanti rischi “per uno stipendio che non rispecchia minimamente quello che facciamo” e che non è “neanche considerata tra quelle usuranti“.

Ci sarebbero tutti motivi, insomma, per lasciarsi andare, mollare, far prevalere lo sconforto, ma “per fortuna, tra un turno e l’altro, tra una procedura e l’altra, troviamo il modo di non perdere mai l’euforia che ci caratterizza”. E quindi alla fine rivolge un appello. “Non chiediamo grandi cose, non chiediamo i milioni. Chiediamo solamente il vostro contributo, che non è economico – scrive Giovanni – Adesso non bisogna mollare la presa. Adesso siamo arrivati alla fine della prima fase: non molliamo, dobbiamo esser prudenti. Il peggio sembra esser passato, ma non dobbiamo essere noi stessi a riportarlo in vita. Distanze, presidi come mascherine e guanti: non abbandoniamoli. Manteniamo ancora per un po’ le distanze, e insieme sconfiggeremo questo mostro”.

Redazione

Autore