La chiusura totale dell'Italia il 9 marzo 2020
“La pandemia ci ha cambiati in meglio”: il pensiero del sociologo a un anno dal lockdown
Non è andato tutto bene: il bollettino di ieri ha riportato gli oltre 100mila morti in Italia a causa del coronavirus. E la terza ondata – o la seconda mai terminata – dell’emergenza sembra ormai voler imporre nuove chiusure all’Italia mentre la campagna vaccinale arranca. Un anno fa, il 9 marzo 2020, l’Italia conosceva il lockdown, che sarebbe partito il giorno dopo. Il coronavirus costringeva gli italiani in casa: “Tutta Italia zona protetta”. Ovvero: tutta Zona Rossa, per 50 giorni. Una negazione della libertà e della vita stessa che però ci ha anche cambiati, in meglio per certi versi. E suonerà anche provocatorio: da tutto questo non ne siamo ancora usciti, ma forse stiamo diventando un po’ meglio di come eravamo.
Così la vede il Professor Ambrogio Santambrogio, docente ordinario di sociologia al Dipartimento Scienze politiche dell’Università di Perugia. “Oggi tutti diciamo di voler tornare a quella che chiamiamo ‘normalità’, riferendoci al modo in cui vivevamo prima della pandemia – ha detto in un’intervista a La Nazione – Ma se accadesse davvero, sarebbe un disastro per la società e per il mondo”. Non è la parodia e nemmeno una provocazione di quando si cantava sui balconi, si esibivano striscioni, si firmava il primo dpcm “io resto a casa” o il decreto “Cura Italia”, si pregava in una Piazza San Pietro vuota con il solo Urbi et Orbi di Papa Francesco, si piangevano i troppi morti, si vedevano le sfilate di mezzi militari che trasportavano le salme, si guardava il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella solo all’Altare della Patria il 25 aprile, si prorogavano tutte le chiusure fino al 3 maggio.
Ambrogio si riferisce ai rapporti forzati – e quindi viziati – tra l’uomo e il mondo, “quelli connessi alla globalizzazione, ai consumi e quindi all’economia. E la relazione che sta alla base di ogni altra, ossia quella dell’uomo con l’ambiente. Da sociologo dico che l’impoverimento dell’ambiente è conseguenza dell’impoverimento dei rapporti fra uomini. E che per cambiare il primo vanno cambiati i secondi”. La pandemia, insomma, dà anche “la sensazione e la speranza che [la collettività, ndr] abbia acquisito la consapevolezza del valore del welfare e il significato del divario fra chi ne è garantito e chi no. La consapevolezza delle trasformazioni in atto nel mondo del lavoro, le sperequazioni al suo interno, la progressiva mancanza di occupazione. E dei pericoli derivanti dallo sfruttamento senza limiti della natura”.
Il professore si riferisce alla professionalità e al sacrificio di medici, infermieri e volontari e al comportamento degli italiani che hanno agito nella stragrande maggioranza con responsabilità e unità di fronte alla più grande emergenza dal Secondo dopoguerra in poi. “Dovremo cambiare l’Italia e il mondo non per quello che la pandemia ci ha portato, ma per i problemi che hanno prodotto la pandemia. Se avremo questo concetto ben in testa, vengano pure momenti di futilità”.
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