Il paradigma della propaganda
La parabola di Greta Thunberg, l’attivista con la kefiah passata dal verde dell’ambiente a quello della bandiera palestinese
La parabola di Greta Thunberg assomiglia sempre di più all’ultimo giorno di scuola prima della Maturità, quando tutti sembrano felici ma l’atmosfera è quella di Amarcord. Il presente è già passato nonostante si faccia finta che nulla sia cambiato. Invece, le foto della ex-ragazzina, epigona di tutti i millenaristi, passata dagli scioperi per il clima alla kefiah onnipresente come la coperta di Linus, sono l’emblema della parabola di un attivismo che infine si è rivelato ideologico e strumentale fin dal primo vagito. Una parabola, per fortuna, che è un’opportunità da cogliere per tornare al buon senso e alla concretezza dei problemi.
Se proprio si vuole trovare un momento di svolta, occorre ancora una volta guardare alla nostra vecchia Europa: stanchi del moralismo green, sono stati i governi – Francia e Germania in testa – a mandare in soffitta il Green Deal, Vangelo pratico e indiscutibile dei normativisti continentali. E neppure serve scomodare l’ormai noto e ottuso negazionismo trumpiano: è bastato il mantra “ricordati che devi morire”, ripetuto a martello dai catastrofisti imbrattatori e scioperanti a chiamata, a rendere indigesta e alla fine irrilevante non solo la protesta ma anche i contenuti, ovviamente validi.
Oggi che al verde dell’ambiente si sovrappone quello della bandiera palestinese, il cerchio si chiude. La questione climatica va sullo sfondo perché bisogna stare sul pezzo, creare consenso su ciò che è più attuale perché non conta il fine ma il lottare in sé. Conta creare un grande movimento di protesta contro il sistema marcio, corrotto, superato e ovviamente patriarcale. E guarda caso, tutte queste definizioni e altre ancora si sommano in un’unica grande parola, anzi due: Occidente e Israele. Che poi di termini intercambiabili si tratta. In sostanza, il Grande Satana, di cui l’ayatollah Khomeini parlava già dopo la prima “rivoluzione” in Iran. Occidente e Israele, nemici del popolo e di Dio. Niente di particolarmente originale. E dall’essere nemici di Dio a voler distruggere il Creato, il passo logico è un attimo.
Perché di questo si parla. Greta Thunberg, e l’attivismo che in lei si riconosce, di questo è figlio: di una teoria che ha come dogma l’intersezione tra la questione ambientale, quella sociale e quella dei diritti. Varie facce di un’unica piattaforma rivendicativa e di lotta. Per cui è naturale questo interscambio tra attivismo per l’ambiente e quello per Gaza o per tutti gli oppressi del pianeta. Interscambiabili senza troppo approfondimento in un minestrone ideologico dove più si urla e meglio è. Millenarismo, rabbia sociale e sensazionalismo. Questo è il metodo. Anche qui, nulla di particolarmente originale. Una strategia che purtroppo svuota di forza e di senso ogni singolo tema, cancellando anche la validità di battaglie giuste per offrire il fianco al pragmatismo reazionario e opportunista che smonta a prescindere come pretestuosa ogni giusta forma di protesta.
E dunque, che fare? Bisogna restituire l’ambiente a sé stesso. Occorre slegare i vari temi dalle catene che li tengono indissolubilmente legati in questo tetris ideologico per farli uscire dal cortocircuito della teoria e restituirli alla concretezza della prossimità e della concretezza. Per liberare il pensiero dalla morsa dell’ideologia la soluzione è una sola: la libertà. Solo così si può smontare il paradigma della propaganda, chiudere la kefiah in un baule, e portare, forse, qualche vero cambiamento nella realtà.
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