Nel dicembre 1962, una larga maggioranza parlamentare approvò la riforma della scuola media unica, eliminando la separazione tra scuola media inferiore e scuole di avviamento professionale. Questo sistema segregava gli studenti sulla base delle capacità e del background socio-economico. Tuttavia, a fine decennio, “Lettera a una professoressa” di don Lorenzo Milani e “Deschooling Society” di Ivan Illich criticarono duramente l’inefficienza e l’ingiustizia del sistema scolastico. Milani denunciava una scuola riformata solo nelle norme ma non nella cultura, che continuava a selezionare i “meritevoli”, amplificando le disuguaglianze sociali. I Pierino (figli del dottore) avevano più opportunità dei Gianni (figli degli operai o contadini). Illich criticava un sistema educativo industriale che soffocava creatività e interessi personali, promuovendo conformismo e obbedienza.

Entrambi proponevano una scuola inclusiva, che superasse il nozionismo e mettesse al centro le persone e le loro differenze, promuovendo un modello democratico e partecipativo. Illich definiva questo modello “conviviale”: autonomo, cooperativo e sostenibile. Nonostante i progressi, le critiche di Milani e Illich restano valide. Il titolo di studio rimane il fulcro di un sistema ancora troppo legato all’impronta industriale novecentesca. Per Illich, focalizzarsi sui titoli rischia di “commoditizzare” l’apprendimento, trasformandolo in una merce da vendere e consumare, svalutando la qualità dell’educazione. Le disparità geografiche nel rilascio dei titoli sono una prova della necessità di sopprimere il valore legale dei titoli, spostando l’attenzione sulle competenze. Certo, passare dai titoli alle competenze è una sfida complessa. Ma perché non lo facciamo?

Il motivo risiede nel rapporto bizzarro, tutto italiano, che abbiamo con i concetti di oggettivo e di soggettivo”, con una adesione quasi ideologica al primo e una repulsione idiosincratica per il secondo. Più un sistema è burocratico più ci illudiamo che sia “oggettivo” scevro da contaminazioni e interferenze. Più è soggettivo e più pensiamo che qualcuno ne abbia avuto, in modo illecito, un vantaggio. Ma di oggettivo nella vita c’è poco o nulla. Le valutazioni sono per loro natura soggettive e sarebbe meglio accettarlo. Studiamo meccanismi rigorosi che rendano le valutazioni metodologicamente e deontologicamente corrette. Se vogliamo essere competitivi e attuali, il focus non può essere sui titoli ma sulle competenze. Dobbiamo investire in un sistema nazionale, digitale e aperto, di certificazione delle competenze che inizi presto e accompagni le persone per tutta la vita. Parliamo tanto di “mercato del lavoro”, ma serve una moneta unica per questo mercato: la competenza. Il titolo di studio è solo carta per il Monopoli.

Andrea Laudadio

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