Il cinema sull’olocausto ci ha abituati ad entrare nel vivo delle storie, a vedere l’orrore con gli occhi dei protagonisti, basti pensare a titoli come “Schindler’s List” di Spielberg, “La vita è bella” di Benigni o “Il Pianista” di Polanski. Con “La zona d’interesse”, l’ultimo film dell’inglese Jonathan Glazer, il punto di vista cambia radicalmente. In quest’opera ambiziosa e sperimentale – è in lizza per cinque nomination agli Oscar, tra cui migliore film e la migliore regia – lo spettatore si trova davanti ad una quotidianità apparentemente normale. Anni ’40, una casetta in mezzo alla campagna, una famigliola con tanti figli, tate e donne di servizio, un allegro cane nero e un giardino pieno di fiori.

Ma basta osservare i dettagli, sapientemente rivelati dal regista, uno ad uno, per capire che questo paradiso è invece un’illusione, perché il padre ha una divisa delle SS, la madre indossa una pelliccia rubata e il figlio gioca con una dentiera d’oro. “La zona d’interesse”, la loro casa appunto, non è una villetta in collina ma una struttura appena fuori dal campo di concentramento di Auschwitz, passato alla storia come il teatro di torture e morte che portò all’uccisione di oltre 1.1 milioni di persone, in maggioranza ebrei. Glazer ha tratto questa storia dall’omonimo romanzo, scritto da Martin Amis nel 2014, e ne ha tirato fuori un filone narrativo sconvolgente: la vita nel campo del comandante Rudolf Hoss, il nazista che insieme a Himmler e Eichmann realizzò “la soluzione finale” ovvero lo sterminio dei prigionieri con le camere a gas e i forni crematori in funzione continua.

Ma in questo film appunto non si vede mai niente del “dentro”, perché dei campi di sterminio sono inquadrate solo le mura di recinzione, si sente però molto, il treno che si avvicina, le urla, gli spari, i rumori sordi delle botte e le grida, e poi si percepisce un fumo, una nube densa e maleodorante che stona con la bellezza della natura tutt’attorno. Il regista gioca con telecamere che sembrano nascoste e con diversi punti di ripresa: basta cambiare angolazione per qualche secondo per capire l’atrocità di ciò che sta accadendo, per passare dalla meraviglia di una dalia sbocciata ad un prigioniero che la concima con le ceneri dei morti. Così come basta voltarsi, chiudere una porta o una tenda, per non vedere, far finta di niente, e mangiare voracemente una torta alle mele. Nella zona d’interesse il ribaltamento del significato è continuo e sconvolge lo spettatore nella sua semplicità: l’orrore non è nelle esecuzioni, nel sangue, ma nella “banalità del male” dei suoi personaggi attivi, nella spietatezza di chi portò avanti uno sterminio con la tranquillità di un impiegato, nella meschinità di chi indifferente continuò la sua vita accanto ai campi di concentramento, come la signora Hoss, interpretata magistralmente da Sandra Huller.

“I mostri esistono” ha scritto Primo Levi “ma sono troppo pochi per essere veramente pericolosi. Più pericolosi sono gli uomini comuni, i funzionari pronti a credere e ad agire senza porsi domande”. Così una gita al fiume o una festicciola in giardino, le cui immagini ricordano capolavori come “Le Déjeuner sur l’herbe” di Manet o “Bagnanti ad Asnières” di Seurat, da momenti di svago borghesi si trasformano in istanti di puro malessere, segnati da toni freddi, cieli plumbei e musiche stranianti firmate da Mica Levi. Spesso ci siamo chiesti “come hanno fatto a non opporsi?” e in qualche modo il film non vuole dare una risposta ma continuare a farci riflettere: “Per me questo non è un film sul passato. Ho provato a parlare del presente” commenta Jonathan Glazer “il motivo per cui ho realizzato questo film è cercare di riaffermare la nostra vicinanza a questo terribile evento che consideriamo passato. Ma quel passato è qui e sono consapevole, e timoroso, che queste cose stiano di nuovo crescendo con il populismo di destra, ovunque. La strada che hanno preso tante persone è a pochi passi di distanza. È sempre a pochi passi di distanza”

Maddalena Messeri

Autore