"Napoli va raccontata con onestà, anche nelle sue ombre"
L’attore Francesco Di Leva: “Da piccolo facevo il panettiere, ai giovani dico sempre di non avere vergogna di fare la gavetta”
Produzioni internazionali e nuove sale a Napoli. Parla l’attore, due volte vincitore del David di Donatello: “I riflettori sono accesi e abbiamo la responsabilità di proteggere questa visibilità rendendola solida”
Francesco Di Leva non è soltanto un attore due volte vincitore del David di Donatello, è anche un uomo profondamente legato alla sua città. Fondatore del teatro Nest a San Giovanni a Teduccio, rappresenta quella Napoli che non solo resiste, ma costruisce, che non solo si racconta, ma si riformula. In un momento in cui il cinema italiano torna a guardare a Napoli con occhi diversi – tra produzioni internazionali, nuove sale e centralità creativa – incontrarlo è stato un viaggio intimo nella sua visione artistica, politica e profondamente umana.
Francesco, oggi Napoli è tornata centrale nel cinema italiano. Cosa rappresenta questo fermento per te, da artista e da cittadino?
«È una conquista collettiva. Napoli ha sempre prodotto immagini, ma oggi comincia a creare strutture. Stiamo costruendo una filiera: ci sono leggi, attenzione, visibilità. Solo 10 anni fa tutto questo non esisteva. Oggi i riflettori sono accesi e abbiamo la responsabilità di proteggere questa visibilità rendendola solida. È il frutto del lavoro silenzioso di tanti».
Il Nest è simbolo della tua scelta di restare nei luoghi da cui provieni. Quanto conta per te?
«Conta tutto. È una scelta artistica, ma anche profondamente politica e umana. San Giovanni non è un luogo da redimere, ma da valorizzare. Se crei luoghi dove le persone possano stare, allora stai credendo nel cambiamento. L’università, il teatro, le infrastrutture: sono semi. E oggi qualcosa sta crescendo davvero, nonostante le difficoltà».
Pensi che si stia restituendo complessità alla città, senza cadere nei soliti cliché?
«Sì, se ne sta accorgendo anche il cinema internazionale. Ma dipende dalle persone, dai dettagli. Napoli è teatro, è resistenza. Va raccontata con onestà, anche nelle sue ombre. L’artista deve avere il coraggio di mostrare il male, ma solo se lo fa per migliorare le cose, per accendere riflettori».
A proposito di riflettori, il tuo ultimo film Nottefonda, girato accanto a tuo figlio Mario, racconta una Napoli più silenziosa. Che sfida è stata?
«Più che una sfida professionale, è stata una sfida emotiva. Lavorare con Mario ha reso tutto più vero. Non era un rapporto da costruire a tavolino: era già lì, fatto di ascolto e dolore condiviso, anche se finto. Ma reale nell’intensità».
Hai vinto due David. Cosa significano per te quei premi? E che responsabilità portano?
«Sono un promemoria. Ti ricordano che non basta essere bravi: bisogna essere coerenti. E dare l’esempio. Io sono partito da piccolo, ho fatto il panettiere, ho costruito tutto passo dopo passo. È questo che cerco di insegnare anche ai ragazzi: crescete nel mondo, siate pazienti. E soprattutto non abbiate vergogna di fare la gavetta».
C’è un ruolo o una storia napoletana che vorresti ancora raccontare?
«Ce ne sono tanti. Uno su tutti è Dodici baci sulla bocca, che portai in scena per anni e che vorrei trasformare in film. Ma poi ci sono i sogni che non dico, per scaramanzia. E a volte sono gli altri a sorprenderti, vedendo in te ruoli che non avresti immaginato».
Se dovessi raccontare Napoli in una sola scena di un film, quale sceglieresti?
«Farei una dissolvenza incrociata tra due scene. Una è in Roma di Cuarón, una manifestazione popolare con una donna incinta straniera al centro: rivoluzione e accoglienza. L’altra è in City of God: violento, poetico, vero. Un incrocio tra questi due film rappresenta Napoli: una città in cui la bellezza convive con la ferita».
© Riproduzione riservata







