Se c’è una figura che ha lasciato un segno profondo nel panorama televisivo italiano, ha certamente il nome di Giovanni Minoli. Giornalista, autore e produttore, Minoli è stato il protagonista di alcune delle più grandi innovazioni della tv italiana, dal giornalismo d’inchiesta alla fiction. Negli anni ha rivoluzionato il racconto dell’attualità con Mixer, ha contribuito alla divulgazione storica con La Storia siamo noi, e ha avuto un ruolo chiave nella crescita dell’industria dell’audiovisivo in Italia.

Ma c’è un progetto che più di altri ha inciso nel tessuto produttivo e culturale del nostro paese: Un Posto al Sole. Una soap opera prodotta e realizzata interamente a Napoli, nata nel 1996, diventata da allora la più longeva tra le fiction della televisione italiana. In partenza sembrava una scommessa azzardata, ma si è rivelata una felicissima intuizione. Oggi, a quasi trent’anni dalla sua creazione, Un Posto al Sole è più di una serie: è un simbolo della fiction italiana e ha reso Napoli un punto di riferimento per la produzione audiovisiva. Ma cosa ha spinto Minoli a credere nel potenziale della città? Qual è il suo punto di vista sull’evoluzione del racconto di Napoli in tv e al cinema? Quali sfide attendono l’industria culturale partenopea? Ce lo spiega in questo colloquio.

Quasi trent’anni fa scelse di far produrre proprio a Napoli Un Posto al Sole, una serie che oggi è uno dei prodotti più longevi della televisione napoletana e italiana. Quale fu l’intuizione che la portò a fare questa scelta?
«Ci sono stati tre fattori fondamentali. Il primo è legato alla situazione della Rai di quel periodo. All’epoca era guidata da figure di grande cultura, come Elvira Sellerio, che una sera mi chiamò e mi disse: “Vogliono vendere il centro di produzione di Napoli. Tu devi portarmi un’idea per salvarlo”. Questo fu il punto di partenza. Nel frattempo io studiavo da tempo la lunga serialità, perché avevo capito che le due colonne portanti della televisione generalista – il calcio e i grandi film – sarebbero prima o poi migrati verso la tv a pagamento. La fiction era la risposta per mantenere la televisione generalista rilevante, perché una serialità lunga e continua crea fidelizzazione, crea abitudine nel pubblico, diventa un appuntamento fisso. Avevo girato il mondo per studiare i modelli produttivi più efficaci e avevo scoperto Neighbours, una soap australiana che aveva un meccanismo di adattamento straordinario. Il suo autore aveva creato un modello produttivo in grado di essere replicato ovunque, adattandolo alle singole realtà nazionali. A quel punto mi chiesi: “Perché non farlo anche in Italia?”. E Napoli mi sembrò la scelta perfetta. Non solo avrebbe raccontato la città, ma sarebbe diventata il cuore pulsante della fiction italiana».

GIOVANNI MINOLI, GIORNALISTA

Quando partì il progetto, si aspettava che Un Posto al Sole potesse diventare un fenomeno così duraturo?
«Avevamo la consapevolezza di aver creato qualcosa di nuovo per l’Italia, ma il successo e la longevità dipendono sempre da molti fattori. Un Posto al Sole è riuscito a conquistare un pubblico trasversale, con una narrazione quotidiana che ha creato un legame profondo con gli spettatori. Ma c’è un dato che spesso non viene sottolineato: Un Posto al Sole è il programma italiano più visto nel mondo. Nel mondo ci sono circa 60 milioni di italiani all’estero, una popolazione pari a un’altra Italia. In molte comunità italiane sparse per il globo, le persone si riuniscono per guardare la serie. Questo perché il prodotto ha saputo raccontare la vita vera, in modo autentico e senza artifici, creando un senso di appartenenza per chi è lontano dal proprio paese».

Dopo il successo di Un Posto al Sole, Napoli è diventata una città sempre più presente nelle produzioni cinematografiche e televisive. Secondo lei, cosa suscita così tanto interesse nella città?
«Napoli ha una caratteristica unica: è una città globale, ma con una fortissima identità locale. È un punto di raccordo tra Nord e Sud, tra Occidente e Mediterraneo. Oggi si appresta a diventare una delle Capitali culturali più importanti del Sud Europa, proprio per la sua posizione strategica. Inoltre, Napoli ha sempre avuto un’enorme capacità di generare storie. È una città che si presta alla narrazione, perché ha tutto: bellezza, contraddizioni, passioni, arte, cultura. Chiunque voglia raccontare una storia intensa, trova in Napoli un set naturale, senza bisogno di artifici. E poi c’è un altro aspetto: Napoli ha un tessuto produttivo che ha saputo crescere nel tempo. Oggi ci sono piccole e medie imprese, startup innovative, ma soprattutto una generazione di professionisti dell’audiovisivo, nata grazie all’industria creata da Un Posto al Sole. Questa è stata la vera rivoluzione».

Napoli è spesso raccontata attraverso certi stereotipi. Esiste secondo lei un topos cinematografico su Napoli?
«La napoletanità è qualcosa di straordinario. È un mix di intelligenza, creatività, ironia, capacità di adattamento. Per molto tempo il cinema e la televisione hanno raccontato Napoli attraverso due soli elementi: la camorra e la spazzatura. È stato un errore, perché Napoli è molto di più. Per fortuna oggi sta emergendo un racconto più articolato, che restituisce una visione più autentica della città. Napoli non è solo marginalità e criminalità: è anche cultura, impresa, innovazione. Il vero topos napoletano dovrebbe essere la sua vitalità, la sua capacità di mescolare antico e moderno, la sua straordinaria energia creativa».

C’è chi sostiene che il racconto della criminalità organizzata sia stato troppo indulgente o addirittura idealizzato. È d’accordo?
«C’è stata sicuramente una distorsione. Ma voglio essere chiaro: la camorra non identifica Napoli. È una realtà presente, certo, ma non è l’anima della città. Se si pensa alla Calabria, viene in mente la ‘Ndrangheta. Se si pensa alla Sicilia, viene in mente Cosa Nostra. Ma se si pensa a Napoli, si pensa a molto di più della camorra. Per anni si è raccontata una Napoli cupa, senza speranza. Io credo che questo abbia fatto male alla città. Napoli è una città piena di energia, di voglia di riscatto, di cultura. È su questo che bisogna puntare».

Lei ha scommesso sulla creazione di un centro di produzione radicato nella città. Oggi, però, la città è raccontata quasi sempre da produzioni esterne. Cosa manca per far sì che questa industria resti più solida sul territorio?
«Manca un salto definitivo nella modernità e nell’internazionalizzazione. Napoli ha un potenziale enorme, ma deve strutturarsi meglio. Serve più formazione, più ricerca, più attenzione alla qualità produttiva. C’è bisogno di creare un sistema produttivo che non dipenda solo dalle grandi produzioni occasionali, ma che abbia una continuità. Bisogna investire sulle competenze locali e creare una vera filiera produttiva».

Quali nuove prospettive potrebbero far evolvere il racconto di Napoli e del Sud in generale?
«Tutto dipende dalle persone. Napoli ha talenti straordinari, ma serve più determinazione. Dopo Un Posto al Sole non c’è stato un Un Posto al Sole 2, e questo è indicativo. Non basta avere successo una volta, bisogna continuare a innovare e a produrre. Il cinema e la televisione devono guardare avanti, devono trovare nuovi linguaggi, nuove modalità di racconto. Oggi le piattaforme digitali offrono enormi possibilità, ma bisogna saperle sfruttare».

Napoli deve quindi puntare a una narrazione più internazionale?
«Assolutamente sì. E non solo attraverso il piccolo schermo, ma anche con il cinema per la televisione. Oggi il grande schermo è sempre meno rilevante rispetto alle piattaforme digitali, quindi bisogna evolversi e guardare avanti».

Quali sono i bisogni concreti del settore che possono dare un vero respiro internazionale all’industria culturale?
«Servono infrastrutture adeguate, condizioni di produzione ottimali e un sistema capace di attrarre investimenti dall’estero. Napoli ha tutto per diventare un polo produttivo di livello internazionale, ma deve crederci di più».

Riccardo Italiano

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