Quattro diverse leggi elettorali in trent’anni sono certamente troppe. Eppure, non bastano ancora, molti puntano alla quinta “riforma”. E parliamo solo delle norme che riguardano l’elezione dei due rami del Parlamento nazionale. Regioni, Comuni, Parlamento europeo, in ciascuna competizione valgono regole diverse, per il piacere e la semplicità degli elettori. Ma restiamo al Parlamento italiano, ancora e sempre rigorosamente bicamerale. Con quel “latinorum” con cui già don Abbondio voleva confondere le idee dei suoi “promessi sposi”, sono state etichettate le quattro “riforme” che, dal 1993, hanno modificato in corsa i sistemi di selezione della classe politica dirigente, almeno di quella chiamata a sedersi sugli scranni di Camera e Senato: dal “Mattarellum” si è passati al “Porcellum”, poi all’”Italicum” per arrivare al “Rosatellum”. Oggi si pensa a un “Melonellum”?

Il dibattito

I sussulti del dibattito ruotano su due questioni fondamentali: l’equilibrio tra maggioritario e proporzionale e il tormentone delle preferenze. All’orizzonte l’invocazione di una riforma istituzionale, diversa nei suoi ingredienti e uguale nella sua sostanziale irrealizzabilità, pensata per una metà del Paese, quella che governa pro tempore. Per restare al capitolo della riforma elettorale, l’obiettivo di un equilibrio tra due modalità di voto che dovrebbero essere alternative e inconciliabili – proporzionale e maggioritario – la dice lunga sui contenuti del dibattito: basta che io ne tragga vantaggio. Ogni mossa di riforma elettorale sembra una scommessa sul proprio tornaconto, che i partiti cercano di immaginare con alchimie diverse: che cosa mi conviene di più? Di per sé le riforme elettorali dovrebbero essere varate per il futuro. Per la legislatura attiva sarebbe come ammettere che la durata di una partita di calcio potesse cambiare in corsa, magari finire all’80’, invece che dopo 90 minuti. Chi sta vincendo decide di continuare a vincere e smette di giocare, in anticipo.

L’età non c’entra

Si sono consumate commissioni Bicamerali, referendum, confronti internazionali, per poi arrivare all’obiettivo dell’equilibrio tra due opposti, senza chiedersi perché le grandi democrazie occidentali preferiscono il maggioritario, e perché invece le istituzioni di secondo livello, come quella europea, si affidano al proporzionale. In Italia siamo abituati a non scegliere. E a coltivare classi dirigenti immutabili, cui affidare la gestione della cosa pubblica. E non c’entra l’età dei dirigenti di partito: abbiamo avuto giovanissime “new entry” che si sono comportate come consumati protagonisti della Prima Repubblica. Uno dei pochi soprassalti di democrazia diretta erano le preferenze. Ce le hanno cancellate perché – secondo i nostri numi tutelari – rischiavano di inquinare le campagne elettorali, aumentando costi e rischi. Ora sembra che si vogliano reintrodurre: ma già c’è chi distingue, dicendo che i capilista non si toccano, con o senza preferenze.

Un altro equilibrio da cercare per non perdere un vantaggio competitivo, negando la sostanza delle cose. O la democrazia rappresentativa funziona con il voto personale, per tutti, oppure giochiamo a un altro gioco. Se dobbiamo tutelare dei “migliori”, siamo in un mondo diverso, ben noto, ma ha a che fare più con l’aristocrazia, che con la democrazia. Sempre ammesso che ci siano dei “migliori”. Poi ci strapperemo i capelli del capo per lamentarci della scarsa affluenza elettorale, ci sorprenderemo per il primo partito, che sarà come sempre quello del “non voto”; e che dire dei giovani, che preferiranno connettersi ai loro social, piuttosto che avventurarsi in un viaggio in cabina (elettorale, s’intende)?

Oppure ci accorgeremo che la distanza dei partiti dal Paese reale aumenta sideralmente, che tutta la vita politica si trasforma in circoli o “cerchi” più o meno magici, in cui i soliti “yes men” girano attorno al (o alla) leader, in cerca di orbite sempre più vicine al centro, dove brilla soprattutto la convenienza. E ce ne lamenteremo, ovviamente, puntando il dito sull’altro e allungando la mano dove c’è ancora qualcosa da prendere.