La presidente della Bce, Christine Lagarde, non dovrebbe solo esprimere preoccupazioni per l’eccezionale aumento dell’inflazione (all’8 per cento e oltre nell’Eurozona e in Italia) che raggiunge livelli, in particolare per il nostro Paese, degli anni ottanta del secolo scorso. Alle giuste preoccupazioni – accompagnate però da espressioni sull’indeterminatezza degli sviluppi dell’aumento dei prezzi quando fino a non molto tempo fa la presidente si produceva in certezze sul carattere transitorio di tale aumento sconfessato, poi, dalla dura realtà – dovrebbe seguire la prospettazione delle misure che la Bce si dovrebbe apprestare ad adottare per un’efficace azione di contrasto. Invece, su questo aspetto sono assai parche le indicazioni. Certo, non è facile imboccare con decisione un percorso, mentre all’interno del Consiglio direttivo della Banca sussisterebbero ancora divisioni, innanzitutto tra “falchi” e “colombe”. Ma all’eccezionalità della situazione occorre rispondere con misure altrettanto eccezionali. Ciò a maggior ragione quando, come nel nostro caso, si tratta di riparare il grave errore commesso pervicacemente ritenendo, per circa due anni, l’aumento dell’inflazione come transitorio in palese conflitto, prima di tutto logico, con il non breve tempo che stava trascorrendo.

Dalla Banca centrale, in ogni caso, non si attende l’esclusiva manifestazione di timori che potrebbero essere legittimamente espressi, limitandosi ad essi, da qualsiasi altra istituzione e dai cittadini ovviamente, ma non da chi è preposto alla stabilità monetaria. E qui è il punto. La Banca centrale europea ha un solo mandato: il mantenimento della stabilità dei prezzi, a differenza della Federal Reserve americana che deve perseguire, anch’essa, quest’ultimo obiettivo insieme, però, con l’altro che riguarda il sostegno all’occupazione (e, dunque, all’economia). Il mandato della Bce si concreta nel mantenimento della stabilità monetaria con un’inflazione al 2 per cento “simmetrico”, nel senso che scostamenti verso il basso o verso l’alto da tale livello, in una prospettiva non di breve termine, impongono interventi dell’Istituto per riportare l’inflazione al livello stesso. Tuttavia la realtà di questi anni fa a pugni con questo quadro normativo che discende dal Trattato Ue. Prima, per 4/5 anni, l’inflazione era nettamente al di sotto del 2 per cento e in qualche fase si è pure rischiato l’avvio verso la deflazione che è un male peggiore dell’inflazione. Ma la Bce non è riuscita a riportare il tasso al livello prescritto. Ora, si registra l’impennata sopra accennata, ma la Bce appare “pronta” (se ne parlerà, tuttavia, il 21 luglio) soltanto ad aumentare dello 0,25 per cento i tassi di riferimento (alcuni vorrebbero lo 0,50), mentre un altro aumento pure di 25 punti base, se non di 50, sarebbe deciso l’8 settembre (data evocativa per l’Italia).

In sostanza, si sostiene da tempo l’immagine della corda per rappresentare le difficoltà dell’operare della politica monetaria: è facile tirarla (cioè effettuare restrizioni), ma è impossibile con essa spingere, svolgere un’azione propulsiva. In effetti, non è proprio così: sarebbe tuttavia assurdo pensare alla Banca centrale come a un “pantocratore”, ma qui si sta valutando quella che è una sua ben delimitata competenza il cui esercizio non risulta conseguire risultati sul piano dell’inflazione per riportarla al target predeterminato, né dal basso, né dall’alto.

Una riflessione allora si impone. L’Istituto non può tutto, come si è detto; tuttavia, non può accadere che, quali che siano i risultati della sua condotta, tutto si ritenga vada bene. Non si possono prevedere le crisi finanziarie; non si può prevedere lo sviluppo dell’inflazione: ma, allora, qual è il ruolo di una Banca centrale? La necessaria “accountability” impone, in ogni caso, delle valutazioni e delle conseguenze, a cominciare dall’adeguatezza del target in questione: va bene? E allora non può avere un mero valore platonico. Non va bene? E allora bisogna promuovere le occorrenti modifiche, per non parlare della necessità di valutare l’unicità del mandato e l’opportunità di affiancarlo mettendo sullo stesso piano il sostegno all’economia e al lavoro. In effetti, ciò che è clamorosamente mancato è stata una necessaria politica di anticipo per stroncare le aspettative di inflazione e l’inflazione stessa, quale ragion d’essere del banchiere centrale, come ha insegnato la Banca d’Italia di Antonio Fazio con i successi conseguiti a suo tempo nel contrastare l’inflazione e nel ridimensionare nettamente gli spread Btp-Bund tedeschi. Ma, essendosi perso tempo cullandosi sulla transitorietà del fenomeno inflattivo, ne è derivato un ritardo grave nel promuovere l’anticipo della reazione, nella migliore delle ipotesi indugiando, alla Don Ferrante manzoniano, sulla natura dell’inflazione. Poi è subentrata la motivazione dell’inflazione che, essendo dovuta principalmente all’aumento dei prezzi dell’energia e al non adeguato funzionamento delle catene di approvvigionamento dei principali beni, è causata dall’offerta contro la quale può poco la leva monetaria. È vero. Anzi, alcuni sostengono che, in questo caso, la reazione dovrebbe consistere in una politica monetaria più accomodante, anziché più restrittiva. Ma, intanto, l’inflazione si sta diffondendo e tocca molti altri prodotti, a cominciare da quelli di prima necessità, e qui perde la sua caratteristica di inflazione da offerta.

Oggi, perciò, alla Bce spetta un’azione che bilanci l’utilizzo dell’acceleratore e del freno e ponga in essere uno scudo anti-frammentazione, cioè anti-spread (Btp-Bund nel caso dell’Italia) che non sia meramente simbolico. Innanzitutto deve avere la disponibilità di adeguate risorse. Ciò non solo può essere fatto “secondo il mandato”, come per interventi similari ha riconosciuto diverse volte la Corte europea di giustizia, ma è imposto dal mandato, come giustamente ha sottolineato l’autorevole componente dell’Esecutivo della Bce, Fabio Panetta, davanti al Parlamento europeo. Una visione sostanzialistica del mandato porta direttamente a queste conclusioni. Per esercitare adeguatamente la politica monetaria, per prevenire i rischi di disintegrazione della moneta unica, è ineludibile intervenire sugli spread. Vedremo, dunque, se e quale evoluzione si registrerà nella strategia delle Bce, non per ultimo anche, e forse soprattutto, nella comunicazione istituzionale che ha continuato a lasciare molto a desiderare, “ in primis” per aver creato di tanto in tanto disorientamento e confusione sulle linee seguite: altro che “ forward guidance”. Naturalmente, vi è, poi, la parte – e che parte, di primo piano – nel contrasto dell’inflazione e per la crescita che spetta alle istituzioni dell’Unione e ai Governi dell’area. Di essa, per il suo carattere cruciale, si potrà scrivere in un’altra occasione. Qui basta rilevare l’essenzialità di un raccordo tra politica monetaria e politica economica e di finanza pubblica. Per la complessità della situazione da affrontare un tale raccordo è fondamentale.