L’automobile è stata simbolo di progresso, libertà e status sociale nel Novecento, rappresentando non solo un semplice mezzo di trasporto ma anche l’icona della cultura occidentale industriale e consumistica. Oggi invece l’automotive attraversa una profonda crisi e fa i conti con il mutamento dell’immaginario collettivo e con la trasformazione della società. Monica Fabris, direttore scientifico CSA Research, pone l’accento sul tramonto del fordismo: «Presupponeva una società organizzata per strutture collettive, mentre i nuovi modi di produzione presuppongono la centralità degli individui». E di certo non aiuta il «disastro» comunicativo sulla mobilità sostenibile, vista come una costosa imposizione e che dunque fatica a conquistare il cuore delle persone: «Ha completamente mancato l’obiettivo di raccontare un nuovo oggetto del desiderio».

Il Novecento è stato il «secolo dell’auto». Invece oggi come è cambiato l’immaginario collettivo?
«La situazione è in evoluzione ma la costante negli ultimi decenni è stata l’impatto delle nuove tecnologie della comunicazione, su cui siamo stati, diciamo così, pionieri, con l’invenzione della telefonia mobile. Quindi nell’immaginario collettivo, accanto alla casa e alla macchina, si è aggiunto il cellulare, lo smartphone. Con la diffusione della Rete le cose sono cambiate ancora, perché è la mobilità nel suo insieme che viene ridisegnata, plasmando nuovi immaginari al plurale».

L’auto è sempre stata un simbolo di libertà e status sociale. La crisi di questo settore significa anche una ridefinizione di ciò che consideriamo importante nella società?
«Paradossalmente l’auto rinnova il suo significato di status sociale e la sua aspirazionalità, con nuove barriere all’ingresso. Quello che si è incrinato è l’accessibilità prima di tutto economica dell’auto, non tanto in termini assoluti quanto in relazione a nuove fonti di costo. Oggi infatti la mobilità breve dell’auto compete con la mobilità lunga degli altri mezzi di trasporto che rispondono alle esigenze di mobilità globale».

La parabola negativa dell’automotive va di pari passo con la crisi della società occidentale. Questo cosa ci dice?
«Più che di parabola negativa parlerei di crisi sistemica in cui l’auto si trova al centro di controversie e antagonismi. È magistrale in questo senso la parabola dell’auto elettrica nel nostro paese, che ha attivato nuove utopie e allo stesso tempo provocato una reazione culturale ostile. Il mondo dell’automotive, a combustione o elettrica che sia, ha inventato il racconto pubblicitario, rivelandosi centrale nell’elaborazione del futuro immaginato nella nostra società. Tutt’ora le migliori narrative pubblicitarie vengono da quel mondo».

Il fordismo ha rivoluzionato la produzione e ha modellato la società su una visione industriale e consumistica. Ora quel modello è al tramonto?
«Certamente è al tramonto e nella fluidità che caratterizza il tessuto sociale prevalgono personalizzazione e frammentazione, con le conseguenze positive e negative che ne derivano. Il fordismo presupponeva una società organizzata per strutture collettive, mentre i nuovi modi di produzione presuppongono la centralità degli individui. In questo senso l’auto, che è un mezzo di trasporto individuale, dovrebbe vedere rilanciata e non ridimensionata la sua rilevanza. Anche il consumismo nel suo insieme non lo darei per morto, ma oggi si incarna in nuovi beni di consumo, più esperienziali, come il viaggiare, ad esempio».

Ormai stanno scomparendo sia le classi medie sia le «auto medie». È un caso?
«Non è casuale ma più che effetto dell’evoluzione dell’auto riflette la situazione economica delle famiglie e la riduzione stessa dei nuclei e dei budget famigliari, in cui l’acquisto (o il noleggio) dell’auto si inserisce. Un single ha bisogno di un’auto piccola, una famiglia grande magari a uso condiviso. C’è da reinventare le modalità di fruizione dell’auto, intese come distribuzione dei costi, e questo richiede un tempo più lungo di quello prettamente tecnologico».

Eppure non siamo pronti ad abbandonare l’automobile come «oggetto di culto»…
«La dinamica degli oggetti di culto è ondivaga e fatta di grandi ritorni. L’auto è già salita e scesa dal piedistallo più volte nell’arco degli ultimi decenni. Dipende di volta in volta da cosa l’oggetto auto simboleggia e oggi probabilmente incarna maggiormente valori identitari di radicamento territoriale e locale, tendenzialmente meno visibili anche se non meno rilevanti».

La spinta verso la mobilità sostenibile è stata comunicata male? Viene vista come un’imposizione che aumenta le disuguaglianze sociali…
«La mobilità sostenibile è stata un disastro dal punto di vista della comunicazione, nel senso che ha completamente mancato l’obiettivo di raccontare un nuovo oggetto del desiderio, che è l’unica strada per qualificare l’innovazione e marcare nuovi territori di consumo. C’è tutto un universo di sensibilità, associazioni, percezioni, valori. Raccontare questo universo non è un compito secondario nella società post-fordista, in cui i contenuti immateriali del consumo sono sempre più importanti».