Mezzo secolo fa, Salvatore Satta – una colonna del nostro Novecento – immaginò che uno studente gli chiedesse cosa fare per diventare giurista. «Gli direi – scrisse – che occorrono la cultura e l’esperienza». Poi, però, entrò più nello specifico e gli consigliò, prima, la lettura della Divina commedia («Se non si è letto Dante, se non si è ricreato il proprio spirito in Dante, non si può chiamarsi giuristi») e poi la lettera che Gargantua scrisse al figlio Pantagruele quando questi si avviò agli studi. Eccone un frammento. «Figlio mio, io intendo e voglio che tu apprenda le lingue perfettamente: in primo luogo il greco, come prescrive Quintiliano; in secondo luogo il latino; e poi l’ebraico per le sacre scritture, e il caldaico anche e l’arabico». A parte Dante, una tale pretesa oggi suonerebbe alquanto eccessiva. O no? Ma c’è una ragione perché tutto questo mi è venuto in mente. Proprio oggi, infatti, alle 15 in diretta streaming, l’università Suor Orsola Benincasa annuncerà la nascita della prima “scuola per la magistratura”: del primo percorso di studi universitari finalizzato alla preparazione dei futuri magistrati. Con i tempi che corrono, è sicuramente una buona notizia. E lo è doppiamente aver scelto come sede Napoli, città di grandi giuristi. Ma quel che più conta è il momento scelto per l’iniziativa, che fa della scuola quasi una misura di pronto intervento.

Lo scandalo Palamara, le dimissioni dal Csm, l’imbarazzo dell’Anm, le polemiche sulle chat dei magistrati pubblicate sui giornali, il caso Berlusconi: cos’altro deve ancora succedere? Mai la magistratura italiana è stata così fortemente delegittimata da una serie tanto impressionante di fatti. Ed ecco perché una scuola arriva a proposito. Le ragioni della débâcle giudiziaria sono note, dalle riforme mancate, ai privilegi togati mai sacrificati in nome dell’interesse pubblico. Ma è inutile, ora, insistere su questo tasto o, viceversa, sul patriottismo eroico di tanti magistrati che hanno difeso la democrazia italiana. Più opportuno, piuttosto, potrebbe essere immaginare anche noi cosa insegnare ai magistrati di domani. E gira e rigira, forse anche oggi non restano che due cose: l’uso delle parole e il dominio dei comportamenti. I fatti recenti ci dicono che i magistrati devono anche imparare a comunicare e a stare in società.

E poiché le cose e le parole si tengono, ciò spiega perché a molti magistrati capiti di comportarsi male e di esprimersi peggio. Si sono scritte intere biblioteche sul giuridichese, su questa lingua ostentata come sacrale, ma in realtà banalmente gergale, infarcita di pseudotecnicismi, di arcaismi, di sociologismi, di narcisismi, di luoghi comuni e di locuzioni dall’apparenza specialistica ma nella sostanza inessenziali. Il punto però è che tutto questo parlar male spesso non esprime altro che il mero compiacimento per il potere esercitato. Un potere che dovrebbe essere libero da condizionamenti e che invece non lo è affatto, specialmente quando si avvina troppo alla politica rappresentativa, addirittura fino a mutuarne le liturgie e le peggiori finalità. Ma c’è un problema. Per una scuola, insegnare a usare le parole giuste non è difficile: basta, ad esempio, impegnare uno scrittore ex magistrato come Carofiglio (devo a lui, tra l’altro, il riferimento a Salvatore Satta).

Più difficile, invece, è educare alla sobrietà dei comportamenti. Un corso specifico di deontologia professionale? Magari, perché no. Nel frattempo, però, può valere come spinta motivazionale proprio il finale della lettera di Gargantua, sempre quella. Caro futuro magistrato, «guardati dalle lusinghe del mondo; non perdere il tuo cuore in cose vane… Servi il tuo prossimo e amalo come te stesso. Onora i tuoi precettori. Fuggi la compagnia di quelli ai quali non vorresti somigliare, e fa’ che non siano vane le grazie che Dio ti ha elargito…». Credo possa andar bene anche per i non credenti.