È mercoledì 15 novembre, nel mezzo delle lezioni pomeridiane a “Palazzo Nuovo”, sede dei corsi umanistici dell’Università di Torino, un nutrito gruppo di militanti dei collettivi e centri sociali fa irruzione nelle aule bloccando le lezioni. Una grande bandiera palestinese viene fatta srotolare lungo tutta la facciata anteriore dell’edificio accompagnata dallo striscione “Uni occupata, free Palestine”. Un comunicato a firma Studenti per la Palestina viene fatto recapitare agli organi di stampa: gli studenti chiedono un immediato cessate il fuoco, la rescissione di ogni accordo tra l’ateneo torinese e quelli israeliani, una presa di posizione chiara e netta a sostegno della Palestina. La notizia di un ateneo occupato e l’interruzione delle lezioni potrebbero suonare ad orecchi educati come una vecchia cantilena già ascoltata, la reminiscenza di un passato rivoluzionario ormai tramontato. La verità è che dietro queste animose e truculente contestazioni si annidano problemi di iniquità e prevaricazione molto forti.

Proteste legittime e diritti altrui

In una breve riflessione indirizzata alla Comunità Studentesca ho provato a delinearne i contorni. I fatti di Palazzo Nuovo scuotono la nostra coscienza individuale allargando il perimetro della riflessione ad un metodo di azione che, partendo dai singoli ed apparentemente isolati accadimenti di questi giorni, promuove già da tempo una forma inedita di manifestazione del dissenso, tanto illecita quanto pericolosa. Il cambiamento di finalità e di utilizzo degli spazi in ateneo, passati da essere centri di sano ma vivace dibattito a teatri di tumulti e processi senza contraddittorio, sta irreversibilmente cancellando la vocazione dell’Università quale sorgente di pensiero critico. Quest’opera di destrutturazione muove necessariamente dalla messa in discussione delle regole di convivenza che presiedono le relazioni tra gli attori in gioco. Quando delle liste di rappresentanza, nell’esercitare il diritto di manifestazione del pensiero, operano una soppressione ingiustificabile delle libertà altrui negando il diritto di centinaia di studenti e studentesse di partecipare alle lezioni, ecco che si consuma un’intollerabile prepotenza. Comprendere il valore della libertà non è cosa semplice, ancor meno saperne delineare i confini. In questo esercizio può orientare una famosissima frase del secolo scorso attribuita a Martin Luther King che, rispolverando le vecchie teorie kantiane, recita: “La mia libertà finisce dove comincia la vostra”. Nella sua semplicità formale veicola un messaggio potentissimo, facilmente scalabile nello scenario di brutalità cui assistiamo oggi. Manifestare per la causa palestinese è legittimo, rientra nella cornice costituzionale dei diritti esercitabili dai singoli individui, non può e non deve essere proibito, a maggior ragione in un contesto gravido di speculazioni dialettiche quale l’università. Impedimenti no, limiti sì. Il limite coincide con il rispetto delle libertà in capo agli altri soggetti (quelli che potenzialmente si è chiamati a rappresentare) di recarsi nelle aule per frequentare regolarmente le lezioni.

La nuova politica universitaria

Lascia interdetti la ricorrenza di questi episodi, sempre più ravvicinati nel tempo, a testimonianza di un modo di fare politica universitaria che va consolidandosi, lontano dall’interesse vero degli studenti. E’ inutile soffermarsi sugli strumenti di cui queste liste si servono per esprimere dissenso, tutti rigorosamente inconciliabili con la legge; saranno a tempo debito affrontati nelle opportune sedi giudiziali. Ciò che preme rilevare è la profonda ipocrisia di fondo che aleggia tra la scelta di ergersi a portatori degli interessi della comunità, impegno insito nel mandato di rappresentanza che hanno assunto, e gli atti di vandalismo perpetrati a danno degli spazi di ateneo. Qualcuno forse ingenuamente crede che i costi di rimozione delle scritte sui muri o di sostituzione di banchi distrutti sia zero, o peggio, non ricada direttamente sugli studenti. Dispiace scardinare queste false e vacue credenze ma ogni azione criminosa porta inevitabilmente con sé conseguenze lesive per la comunità. Ed il danno non è solo economico, ma anche d’immagine. Le giornate di occupazione presso il polo di scienze umanistiche sono scandite da incontri con personalità dai trascorsi che definire opinabili sarebbe eufemistico.

La conferenza di Leila Khaled all’università di Torino

Proprio giovedì una sala gremita di militanti dei centri sociali e dei collettivi ha accolto in videoconferenza Leila Khaled, membro del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, inserita nella lista delle organizzazioni terroristiche dell’Ue e degli Stati Uniti, già protagonista di due dirottamenti aerei tra il 1969 e 1970. Una donna, divenuta famosa per essere stata la prima ad aver attentato ad un volo di linea, viene “virtualmente” accolta da una platea in visibilio, in quelle aule, ove ogni mattina, insegnanti onesti e coscienziosi propugnano un modello di società improntato sul valore della legalità. Questo ultimo elemento rimarca in maniera ancor più nitida la distanza tra i fatti incresciosi avvenuti e i principi statutari di cui l’Università è garante. Da rappresentante eletto esprimo una condanna aperta e ferma verso queste azioni di rivolta dalla portata e gli effetti ingiustificati. Alla Comunità Studentesca dell’Università degli Studi di Torino sento di rivolgere un appello particolare, a non lasciarsi assuefare dalla violenza, a non abituarsi mai a vivere scene così, ad esprimere sempre la propria opinione ma nel pieno e completo rispetto delle libertà altrui.

Giacomo Pellicciaro

Autore