Le cifre, che impietose documentano la realtà del lavoro povero, smentiscono una trita retorica per cui i lavoratori italiani hanno goduto sinora di una ricchezza schizzata ben al di sopra delle proprie possibilità di vita. Nel Bengodi dell’opulenza i salari in trent’anni sono addirittura scesi, mentre altre economie europee registravano crescite significative nelle retribuzioni. Quando si guarda sbigottiti al populismo, al fenomeno dell’operaio che vota a destra, si trascura di considerare i rapporti di produzione. L’essere sociale modellato sugli schemi della precarietà, dell’incertezza e dello sfruttamento non ha rappresentanza politica. Perché mai i ceti operai dovrebbero collocarsi a sinistra nella ginnastica dell’alternanza che, nel mutare del personale di governo, assume come variabile indipendente proprio la marginalizzazione del lavoro?

La rinuncia al radicamento sociale ha reso friabile il sistema politico, esposto alle intemperie dell’antipolitica populista, ha condannato alla povertà il lavoro, con una giungla contrattuale proliferata per fiaccare la resistenza della forza lavoro, e ha condannato ad essere scarsamente innovativo il meccanismo produttivo. La scomposizione della soggettività politica del lavoro non è solo l’effetto di grandi trasformazioni, è anche la causa di fenomeni regressivi che, nel regime della decrescita trentennale, accentuano l’alienazione politica e il ribellismo antipolitico. L’illusione che il test dell’alternanza di governo, e l’apprendistato delle più sofisticate ricette di ingegneria costituzionale comparata che ha suggerito di cambiare cinque leggi elettorali in trent’anni, garantisse il consolidamento della Seconda Repubblica è caduta. Nessun regime politico riesce a stabilizzarsi, e a superare le periodiche crisi di legittimazione, senza le condizioni della crescita, della redistribuzione, dell’inclusione sociale. Il politicismo di partiti svuotati nelle idee e negli interessi materiali ha dimenticato, assieme alla critica dell’economia politica e al progetto di una alternativa di società, anche il governo della modernizzazione per soddisfare gli imperativi della divisione internazionale del lavoro.

Il disegno su cui è nata la Seconda Repubblica è quello del vincolo esterno (le “scadenze imperative” di Maastricht) come lo strumento del destino per indurre all’accettazione passiva delle “riforme” liberiste le quali, per uscire dalla vecchia economia mista, esigevano, così si esprimeva Michele Salvati, processi competitivi con “una dinamica contenuta dei salari monetari e una elevata flessibilità nelle condizioni di lavoro”. Questo modello di riforme, per creare economie dinamiche attraverso “lo si voglia o no, la flessibilità salariale e tutte le altre flessibilità del rapporto di lavoro e delle relazioni industriali”, è fallito politicamente (reiterati “crolli di regime” nel 2013 e nel 2018) e socialmente (generazioni perdute, trentennio di decrescita e stagnazione). La retorica del “grande accordo del 23 luglio 1993” si sgonfia anch’essa dinanzi ad una moderazione salariale (e alla rinuncia ad ogni forma incisiva di indicizzazione in rapporto all’inflazione) che, in un trentennio poco glorioso, da emergenziale è diventata uno strutturale dato di sistema.

Si impone una riforma di sistema del capitalismo italiano per arrestare il declino, ma mancano le culture e gli attori necessari per abbozzare un compromesso politico e di classe. La Confindustria sostiene che i salari non possono essere sganciati dalla produttività. Ma la scarsa produttività del sistema è stata provocata dall’alleanza tra politica post-ideologica, senza una vaga idea di socialismo, e impresa siglata nei primi anni ’90. Con essa si imposero privatizzazioni, svendite del pubblico, delocalizzazioni, frammentazioni normative e moltiplicazione delle tipologie contrattuali, fuga dalle grandi sfide per acciuffare l’innovazione tecnologica nei settori strategici dello sviluppo. Se la produttività in Italia dal 1995 ad oggi è cresciuta di appena 10 punti, mentre nell’Eurozona la cifra è superiore al 40%, ciò si spiega per il fallimento storico delle classi dirigenti dell’economia e della politica nel disegnare un modello efficace per favorire l’aggancio dell’apparato produttivo italiano ad un competitivo tempo di economia della conoscenza.

La produttività ha dei limiti strutturali a decollare nel micro-capitalismo dei territori, che guarda soprattutto al mercato estero per badare alla soddisfazione della domanda interna, e nella diffusione di attività commerciali a basso contenuto tecnologico-cognitivo. La deflazione salariale, l’incertezza contrattuale, la precarietà hanno scandito le tappe di una economica della de-crescita e della stagnazione trentennale. Non basta, come sostiene il Pd, prevedere meno tasse sul lavoro per migliorare le condizioni di vita. In Francia e in Germania le tasse sul lavoro sono addirittura più elevate di quelle italiane, e però i salari sono ugualmente cresciuti di oltre il 30%. Il limite di molte proposte oggi in discussione è quello di concepire il miglioramento del salario solo grazie all’intervento creativo del governo nelle aliquote fiscali. Senza un recupero significativo dei capitali caduti nell’evasione fiscale, la pura manutenzione delle aliquote e la pioggia dei bonus occasionali si riverberano però nella decurtazione dei fondi per i beni pubblici.

Con bonus, tagli, esenzioni si concede qualche briciola in più nella busta paga, ma tagliando le risorse della fiscalità generale, e cioè contraendo i fondi essenziali per la progettazione di un nuovo modello di crescita. Il sindacato deve recuperare una vocazione conflittuale: non è il pubblico la controparte, quasi che il salario fosse una determinazione politica statica, che solo maneggiando il fisco si può smuovere. La contrattazione (la legge sulla rappresentanza effettiva delle organizzazioni a questo dovrebbe puntare) non può che colpire anche la controparte, e cioè erodere la quota di profitto per incrementare la fetta del salario.

L’appalto al governo tecnico del compito di recupero della modernizzazione si arena tra gli scogli della guerra, che ne enfatizza i limiti politici e l’assenza di una capacità di destinazione qualitativa degli investimenti (sperperi in bonus facciate, invece che investimenti per beni pubblici, innovazione, politiche industriali). Il pendolo della Seconda Repubblica, oscillante tra momenti di populismo, con coalizioni della decrescita (Quota 100, flat tax, bonus e sussidi improduttivi), e fasi di tecnicismo con interventi di salvataggio-risanamento della finanza pubblica ispirati dal vincolo esterno, svela una carenza storica organica: mancano un partito del socialismo, un’impresa dell’innovazione, un sindacato del conflitto.