L’accordo raggiunto a Bruxelles sul “salario minimo e adeguato” è stato definito da alcuni come “storico”, ma ciò non significa che si trascuri il perimetro dell’intesa, consistente nella definizione di un quadro generale per la fissazione dei caratteri di tale salario.  L’intesa, che come Direttiva Ue dovrà essere perfezionata con l’approvazione da parte dell’Europarlamento e del Consiglio, rispetta le diversità nazionali stabilendo i criteri per l’adeguatezza, l’equità e il livello minimo, e concorre allo sviluppo della contrattazione collettiva. I Paesi europei che, nella loro legislazione, non hanno finora la previsione di un salario minimo sono sei, Italia compresa. Può essere una svolta alla condizione che se ne comprendano anche i limiti e si evitino impatti negativi su altri istituti del rapporto di lavoro; anzi, all’opposto, che di tale innovazione – che resta pur sempre non tassativamente cogente per i partner comunitari – si faccia la leva per un generale miglioramento della disciplina di tale rapporto, con riferimento anche al precariato e ad altre forme di lavoro che sono ai margini della legittimità.

Non si tratta di una scelta dirigistica e si deve pur tener conto dell’affermazione del leader della Confindustria secondo il quale, nell’ipotesi in cui, recependo la Direttiva, si fissi il salario minimo orario a 9 euro – come ci si starebbe diffusamente orientando – la totalità dei contratti gestiti dalla Confederazione in questione prevede già un importo superiore. Il punto centrale della discussione in Italia ha riguardato il rapporto di questa innovazione con la contrattazione tra le parti sociali e l’intervento della legge (con il recepimento della Direttiva). Vi è la posizione di chi afferma che il salario minimo andrebbe stabilito con la negoziazione rimarcando il ruolo delle parti sindacali e datoriali nella disciplina dei rapporti di lavoro. Ma ciò comporterebbe, poi, un intervento legislativo per dare efficacia erga omnes alla contrattazione e, prima ancora, un altro intervento normativo per disciplinare la rappresentanza delle organizzazioni sindacali.

Nel movimento dei lavoratori esistono sensibilità diverse, soprattutto tra chi valorizza l’autonomia del sociale e, dunque, ritiene soprattutto la regolamentazione del rapporto di lavoro un hortus conclusus delle parti sociali che sarebbe alterato da misure legislative, e chi pensa, invece, che il legislatore potrebbe recepire accordi tra le parti con l’intervento del Governo, seguendo una linea neocorporativa, dando loro una più ampia estensione applicativa e la maggiore efficacia. Qui ci si avvicina all’esperimento della concertazione del 1993, introdotta dall’allora presidente del Consiglio Carlo Azeglio Ciampi, e alla politica dei redditi – di tutti i redditi – a cui attraverso la concertazione si intese dar vita avendo, poi, come sbocco l’adozione di misure anche legislative che il Governo promosse dopo la conclusione dei confronti con le parti sociali, ovviamente non limitati al rapporto di lavoro.

Naturalmente, una volta tradotta in legge l’intesa, la disciplina che ne consegue vive un’esistenza autonoma non essendo condicio sine qua non l’adozione di una nuova intesa per eventualmente modificarla, almeno dal punto di vista costituzionale, altra cosa essendo il piano politico e delle valutazioni di opportunità. In ogni caso, oggi non sarebbe fuori luogo imboccare la strada della contrattazione tra le parti sociali, con l’intervento del Governo, che riguardi non solo il salario minimo, ma anche gli aspetti connessi, a cominciare, appunto, dal precariato e dal lavoro nero. Non credo che vi sia contrasto tra una tale iniziativa e la pur necessaria riduzione del cuneo fiscale, a maggior ragione se si afferma che la totalità dei contratti riconducibili al ruolo confindustriale prevede un salario superiore a quello che ora verrebbe fissato in attuazione della Direttiva comunitaria.

Vi sarebbero contrasti con altri tipi di contratti? È possibile. Ma non sarebbe giusto uno scambio tra rinuncia all’introduzione del salario minimo e restringimento del cuneo fiscale: si baratterebbe una misura di regolamentazione strutturale con un’altra di policy. Un organico intervento sulla produttività è essenziale; sollecita il concorso delle organizzazioni sindacali; si deve, però, trattare della produttività totale dei fattori, non solo di quella del lavoro. Tutti soggetti sono chiamati a fare la propria parte in un momento ancora eccezionale per il congiungersi dell’inflazione con gli effetti collaterali della guerra promossa dalla Russia contro l’Ucraina che si aggravano sempre di più. Il momento attuale pone l’esigenza di un raccordo tra politica economica, politiche del welfare e politica monetaria avviata sulla strada della normalizzazione. È in questo quadro che va affrontata la questione-salario insieme con quella del precariato e dell’occupazione in generale. Un “ sì” o un “no” al salario adeguato e minimo avulsi dal contesto generale e dai necessari collegamenti sarebbero certamente limitativi.