Dal Patriarca Kirill, che ha descritto l’invasione dell’Ucraina come una forma di resistenza alla “lobby gay” che darebbe ordini alle potenze occidentali, al parlamento georgiano che nella sua opera di progressivo e rapido smantellamento dello stato di diritto – è notizia di queste ore – si appresta ad approvare una legge contro la “propaganda gay”, ovunque si vogliano attaccare le democrazie liberali il nemico da indicare è oggi uno e uno solo: la comunità LGBTQIA+.

Il capro espiatorio

Negli occhi dei tiranni di ogni latitudine siamo noi la forza oscura che trama alle spalle delle masse, che è prova della decadenza morale delle nostre società e che va eliminata alla radice per instaurare nelle nazioni decenza, ordine, disciplina e morale. Un capro espiatorio perfetto, non dissimile da ciò che gli ebrei rappresentarono nel secolo scorso per consentire che, nel tripudio popolare, nazisti e fascisti soggiogassero quasi tutto il nostro continente, strangolandolo nel cappio delle loro sanguinarie dittature. In molti Paesi del mondo oggi siamo noi il nemico da additare al popolo, come nel secolo scorso lo furono gli ebrei. Una minoranza di cui diffidare, che vive dissimulata e indissolubilmente intrecciata al resto del mondo, ma che va metodicamente scovata e combattuta per realizzare l’aspirazione a una società eticamente ripulita e purificata e resa moralmente perfetta.

Il timore

È soprattutto per questo che sono rimasto molto addolorato e colpito dalla decisione di David Keshet Italia, l’organizzazione ebraica queer, che ha deciso di non partecipare alle manifestazioni del Pride in tutta Italia per timore di subire aggressioni dovute al clima di odio sviluppatosi dentro la stessa comunità LGBTQIA+ intorno alla loro partecipazione. Trovo incredibile che una comunità come la nostra, fatta di persone che vivono sulla propria pelle discriminazione, intolleranza e odio, possa prendere di mira una minoranza al proprio interno, addebitando a tante persone – italiane come noi, ma individuate dal fatto di essere ebree – le scelte politiche del governo di un altro Paese, che peraltro non è affatto detto che queste persone condividano.

Il paragone con Israele

Le piattaforme deliranti di molti Pride – a partire da quello di Padova, la città di Alessandro Zan, che non mi pare sul tema abbia speso una sola parola, (“Il sionismo è figlio del colonialismo bianco ed europeo e abbiamo la responsabilità di usare il nostro privilegio per combattere l’oppressione israeliana che dalla nakba del 1948 uccide, umilia, tortura, stupra il popolo palestinese”) a quello di Torino (“Siamo a fianco delle comunità LGBTQIA+ di tutti i paesi in guerra, e particolarmente vicini alle comunità palestinese, ucraina e russa”: a quella israeliana invece no) – fanno finta di ignorare che Israele è l’unico luogo di tutto il medio oriente nel quale la nostra comunità viva nella piena legalità e in sicurezza. Che a Gaza le persone omosessuali vengono gettate vive dai palazzi e che il giorno in cui Israele dovesse essere cancellato dalla carta geografica sarebbe sostituito, “dal fiume a mare”, non da uno stato liberale amico delle minoranze ma da una repubblica teocratica satellite dell’Iran, dove la pena di morte per le persone coinvolte in atti omosessuali è prevista dalla Sharia ed è eseguita con zelo, mediante pubblica impiccagione.

È assurdo sul piano della logica che una minoranza, che da anni chiede a viva voce una legge contro l’odio, non sia schierata in modo compatto e fermo contro ogni forma di odio, che qualcuno possa pensare che esistano forme di odio accettabili, che si possa legittimamente trasformare una persona in un target per una sua caratteristica personale: se non lo accettiamo per l’orientamento sessuale e l’identità di genere non vedo come possiamo accettarlo sulla base della nazionalità, dell’etnia o della appartenenza religiosa. Se combattiamo l’omobitransfobia non possiamo non combattere l’antisemitismo, non c’è possibile mediazione su questo. Il Pride è per definizione la festa della libertà, dell’inclusione, dell’orgoglio di essere ciò che si è: “I am what I am”, canta uno dei più celebri inni delle nostre parate. Al Pride si celebra la propria gaiezza, e tutti gli addentellati che possono accompagnarla: incluso ovviamente il fatto di essere gay e di essere ebrei, sfilando dunque con la stella di David (che non è la bandiera israeliana, è il simbolo dell’ebraismo) in campo arcobaleno. Come ci ha dolorosamente insegnato la Storia, se un luogo non è sicuro per gli ebrei, non è sicuro per nessuno. Vale anche per il Pride: oggi tocca agli ebrei, domani potrebbe toccare benissimo a chi esprima un’idea o un’identità di qualsiasi altro tipo. Andrò dunque al Pride di Milano, come faccio da sempre, soltanto se le persone LGBTQIA+ che appartengono a Keshet Italia si sentiranno alla fine di andarci anche loro (e in questo caso con loro sfilerò). Un Pride che discrimina, semplicemente non è il Pride.