Il 12 dicembre Tether, società nota per l’emissione di USDT, ha inviato a Exor una proposta vincolante e interamente in denaro per acquistare la partecipazione di controllo della Juventus: 2,66 euro per azione, per un valore complessivo dell’equity vicino a 1,1 miliardi. Tether, già azionista sopra il 10% (circa 11,5%), chiedeva una risposta entro il 22 dicembre e, in caso di adesione, annunciava l’intenzione di estendere la stessa offerta al restante mercato. Nel pacchetto, anche l’impegno a mettere a disposizione fino a 1 miliardo di risorse aggiuntive per rafforzare squadra e sviluppo. Il 13 dicembre Exor ha respinto la proposta, ribadendo che la squadra non è in vendita.

In attesa della Consob

Juventus, peraltro, è una società quotata e ogni mossa che incida sul suo controllo dovrebbe muoversi dentro un perimetro di regole che impone trasparenza e parità informative: vedremo se Consob avrà qualcosa da dire sul modus operandi dell’offerente. Ma, anche tralasciando eventuali incongruenze rispetto alla disciplina dell’offerta pubblica, la notizia vera è un’altra. Finora il matrimonio tra cripto e calcio era stato soprattutto di superficie: sponsor sulle maglie, accordi di naming, token per monetizzare il tifo e qualche promessa di community. Questa è la prima occasione in cui un operatore cripto tenta di entrare dalla porta principale, puntando al controllo di una società quotata che è, insieme, impresa, marchio globale e pezzo di identità collettiva. Qui non si compra un flusso di cassa: si compra legittimazione.

Chi è Tether: la società che voleva comprare la Juventus

Tether non è una startup ribelle né un esperimento marginale. È l’emittente della stablecoin più utilizzata al mondo, un soggetto che vive di rendite finanziarie generate dalla gestione delle riserve e che, negli ultimi anni, ha accumulato profitti tali da potersi permettere investimenti miliardari. Ma resta, agli occhi di molti, un corpo estraneo rispetto ai circuiti tradizionali del capitale industriale e finanziario. Acquisire la Juventus significherebbe, prima ancora che diversificare, accreditarsi. In questa chiave, l’operazione assomiglia a un biglietto d’ingresso: pagare per sedersi al tavolo giusto. Entrare nel club delle grandi imprese visibili, regolamentate, riconoscibili, dove il valore non è solo economico ma anche simbolico. Il rifiuto di Exor, per quanto secco, non cancella il segnale. Anzi, lo rafforza. Il capitalismo cripto non chiede più soltanto spazio ai margini del sistema: tenta di comprarsi visibilità. E se per farlo serve mettere sul tavolo un’icona come la Juventus, il prezzo – anche reputazionale – diventa parte integrante dell’investimento. Questo salto, peraltro, arriva proprio mentre l’Europa, con MiCA, prova a chiudere il far west dei cripto-asset imponendo requisiti e vigilanza, soprattutto sugli emittenti di stablecoin.

La disintermediazione compra l’intermediario

Il paradosso è tutto qui. Per anni la retorica cripto ha promesso disintermediazione: regole vecchie superate dalla tecnologia, fiducia sostituita dal codice. Ora quella stessa finanza cerca legittimazione proprio dove l’intermediazione è più densa e visibile: nella proprietà di un’istituzione nazionale, con storia, tifoseria e un capitale reputazionale che nessuna blockchain può minare. La disintermediazione, insomma, compra l’intermediario. E quando lo compra, deve accettarne il prezzo: controlli, bilanci, responsabilità e tempi che non si comprimono con un comunicato.

Andrea Chiloiro

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