Il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità il disegno di legge sulle riforme costituzionali. Cinque articoli che vanno a ridisegnare la seconda parte della Carta. È una “riforma costituzionale che introduce l’elezione diretta del presidente del consiglio e garantisce due obiettivi che dall’inizio ci siamo impegnati a realizzare: il diritto cittadini a decidere da chi farsi governare, mettendo fine a ribaltoni, giochi di palazzo e governi tecnici” o “passati sulla testa dei cittadini”, ha spiegato il presidente Meloni in conferenza stampa. L’altro obiettivo è “garantire che governi chi è stato scelto dal popolo” con “stabilità”. “Negli ultimi 75 anni di storia Repubblicana abbiamo avuto 68 governi con una vita media di un anno e mezzo – ha detto Meloni – Questa è la madre di tutte le riforme che si possono fare in Italia. È una priorità e proprio perché siamo stabili e forti abbiamo la responsabilità di cogliere questa occasione e per lasciare a questa Nazione qualcosa che possa risolvere i propri problemi strutturali”. Inoltre “l’assenza di stabilità ha creato un problema di credibilità internazionale, nelle nostre interlocuzioni”, ha evidenziato il presidente del Consiglio. “Il ruolo del presidente della Repubblica è di assoluta garanzia e noi abbiamo deciso di non toccarne le competenze, salvo l’incarico al presidente del Consiglio” che viene eletto.

Il premier può essere “sostituito solo da un parlamentare: quindi fine dei governi tecnici. Non ci sarà più la possibilità di fare maggioranze arcobaleno”. Ma a differenza di quanto fece Renzi, dimettendosi dopo che gli elettori non votarono la riforma, Meloni già preannuncia di rimanere al suo posto: “Io ho detto che ho fatto quello che è scritto nel programma: faccio la riforma e la consegno agli italiani ma nulla ha a che fare con l’andamento del governo, io sto realizzando il programma di governo”.

Gli articoli modificati sono quattro. Il primo riguarda il nuovo assetto dell’esecutivo: si prevede che il premier sia « eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni” contestualmente al voto per il Parlamento. Lo stesso premier deve anche essere un parlamentare. Oggi invece l’elettore vota per il rinnovo del Parlamento e poi il Capo dello Stato, sulla base del risultato elettorale, conferisce il mandato di formare un governo a chi ritiene sia in grado di ottenere la fiducia delle Camere. Di solito i partiti o le coalizioni indicano il loro candidato premier (è accaduto così con il governo Meloni) ma talvolta il risultato elettorale “obbliga” a cercare una soluzione diversa: come nel 2018, quando si arrivò dopo mesi di trattative tra M5s e Lega al nome di Giuseppe Conte (allora semplice avvocato e docente universitario di diritto).

La riforma inserisce un riferimento alla legge elettorale direttamente in Costituzione, prevedendo che si debba assicurare “rappresentatività e governabilità” ma anche un premio di maggioranza del “55 per cento dei seggi nelle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio”. Non viene invece toccato il procedimento che prevede che sia il Capo dello Stato a nominare i ministri, seppur su proposta del premier, i ministri che andranno a comporre l’esecutivo. Nella riforma si prevede una clausola anti-ribaltone: dopo il voto, il premier eletto alle urne ha due tentativi per ottenere la fiducia. Se non ce la fa, il Capo dello Stato è tenuto a sciogliere le Camere (e quindi a tornare al voto) senza poter individuare un sostituto, magari anche esterno all’arco parlamentare.

Se il premier eletto cessa dalla carica nel corso della legislatura, invece, il Capo dello Stato può incaricare al suo posto solo un “parlamentare che è stato candidato in collegamento” al premier per attuare il programma “su cui il Governo del Presidente eletto ha ottenuto la fiducia”. Insomma, niente più governi di colore diverso, come accadde per esempio nel passaggio dal Conte I (sostenuto da Lega e M5s) al Conte II (targato Pd-M5s), né tantomeno premier tecnici come Mario Draghi o Mario Monti. Al massimo, un altro esponente della maggioranza.