Era ora. Dopo decenni di annunci arriva finalmente un’azione concreta per la lotta ai cosiddetti “diplomifici”. Il Ministro Valditara ha annunciato ieri la chiusura del piano straordinario di vigilanza contro il fenomeno: sono ben 47 le procedure avviate per la revoca della parità scolastica sulle 70 scuole di II grado controllate in Campania, Lazio e Sicilia. Una proporzione mostruosa che illumina il fenomeno in tutta la sua gravità. Cosa non andava nelle 47 scuole finite sotto la lente ministeriale? Di tutto e di più. Da carenze strutturali (aule insufficienti o mancanza di laboratori) fino a ben più gravi lacune nell’erogazione dei contenuti disciplinari, modifiche improprie ai quadri orari e, in qualche caso, addirittura la totale eliminazione di alcune discipline, tra cui l’Educazione Civica. Altrove i docenti erano privi di abilitazione e, in alcuni casi, persino privi del titolo di accesso per l’insegnamento della disciplina.

Infine gli studenti: qualcuno aveva residenza e domicilio in regioni così distanti da creare il sospetto sull’effettiva frequenza delle lezioni. Il Ministro ha annunciato nuove iniziative normative per contrastare le irregolarità riscontrate. Tra queste, anche nuove regole per il sostenimento contestuale di esami per più anni scolastici. È una giusta attenzione, poiché il recupero anni ha rappresentato, soprattutto al Sud, un vero e proprio business, a discapito di un reale accertamento di competenze e in spregio a chi quei percorsi li ha frequentati con serietà e con effettiva acquisizione di competenze. Certo, si rimane garantisti anche in questi casi. Non ci appassiona il clima da crociata, e sempre va tutelata la garanzia, per le scuole “inadempienti”, di dimostrare il contrario, evitando che la buona causa produca eccessi da ricerca del “pelo nell’uovo”. Del resto, tra le incongruenze segnalate (come le lacune nei registri) ne ritroviamo alcune che potrebbero essere facilmente riscontrate in numerose scuole di Stato. La sfida lanciata dal Ministro, infatti, avrà compimento solo quando potrà investire le scuole statali, anch’esse chiamate a garantire quegli standard di qualità che oggi, con tanto (troppo?) zelo, si cercano nelle paritarie.

Fatta questa premessa, la “stretta” ministeriale rappresenta comunque un buon segnale, da salutare con entusiasmo. Le prime a farlo sono le stesse scuole paritarie, quelle virtuose, che si impegnano per garantire effettivi standard di qualità, in molti casi superiori a quelli delle statali. Per loro è un bel giorno, perché si toglie finalmente un alibi a chi ha usato questo pretesto per squalificare tout court le scuole paritarie: paritarie e diplomifici, da oggi, non sono più la stessa cosa. È un buon passo ma la strada è ancora lunga. Anche perché le differenze di standard qualitativi, quelle che pesano davvero sul sistema dell’istruzione, riguardano soprattutto le scuole statali. E per questo, probabilmente, non basteranno i controlli! È significativa la coincidenza (o forse non lo è?) di questo annuncio con l’avvio degli esami di Stato. 526 mila studenti di tutta Italia affrontano oggi una prova dalla quale dovrà scaturire un punteggio finale compreso tra 60 e 100. Avranno frequentato percorsi diversi in scuole e territori diversi, saranno valutati da commissioni diverse con decine di possibili variabili, sarà differente la qualità degli istituti che li ha formati(quanti diplomifici di Stato esistono?) ma alla fine, ad aver valore, sarà solo quel piccolo numero, il quale, ahinoi, incide ancora concretamente nelle dinamiche mondo del lavoro: per le carriere da collaboratore scolastico (Ata), o per l’assunzione in Poste Italiane, per esempio, il voto del diploma continua a fare la differenza.

In un editoriale di qualche anno fa, Ernesto Galli della Loggia segnalava un dato sorprendente solo in apparenza, confermato annualmente dalle statistiche del Sole 24 Ore, che attestano la discrasia tra la valutazione degli esami di stato e quelli delle prove Invalsi (prove con valutazioni oggettive e comuni a tutte le scuole d’Italia). L’intellettuale romano, osservando gli esiti Invalsi, notava che i punteggi più bassi erano quelli degli studenti calabresi e, con tono ironico, chiedeva poi ai lettori quale fosse la Regione con il più alto numero di 100 attribuiti agli esami di Stato. Era proprio la Calabria! Un 100 attribuito a Milano è uguale a un 100 attribuito a Catanzaro? La riflessione e i dati conducono allora a una domanda radicale: hanno ancora senso quell’esame e quel voto finale, privo di aggancio con la realtà effettiva delle competenze acquisite? Se ne parla spesso a bassa voce, forse per la presenza di questa proposta nel Piano di Rinascita Democratica della Loggia P2, ma di fronte a dati come questi forse bisognerebbe gridarlo a gran voce: non è forse il caso di tornare a parlare dell’abolizione del valore legale del titolo di studio? Se quel “numeretto” senza senso perdesse valore, lo acquisirebbero, come per magia, proprio quelle competenze (che tanto impropriamente vorrebbe misurare) e soprattutto gli istituti che effettivamente le erogano. Comincerebbe la corsa alla qualità, non più al miglior voto. E a trarne vantaggio saremmo tutti noi.

Pino Suriano

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