“Visitare i carcerati” non è solo un’opera di misericordia, è un viaggio della speranza da infondere nei luoghi dove rischiano di prevalere sfiducia e rassegnazione. In questa estate dei suicidi che tra luglio e agosto hanno raggiunto numeri mai visti, Nessuno tocchi Caino ha fatto visite negli istituti di pena calabresi e pugliesi. Altre visite saranno effettuate nelle prossime settimane. Questa è la prima di tre parti di un reportage dal carcere di Catanzaro che abbiamo visitato insieme alla Camera penale il 18 luglio scorso. Catanzaro è la parte che ben descrive il tutto di una realtà, quella carceraria, che a chi ha occhi per vedere e orecchie per sentire sempre più appare fuori dal tempo e fuori dal mondo.
Il nostro viaggio nella “realtà parallela” del carcere inizia in un caldo mattino di luglio. Dopo i controlli di rito, accompagnati dal Direttore e dal Comandante, con Rita, Sergio ed Elisabetta ci accingiamo a visitare le sezioni che compongono l’affollato istituto penitenziario del capoluogo calabrese, intitolato all’Agente reggino Ugo Alberto Caridi. All’ingresso, accanto alla statua della Vergine, è presente una tomba in pietra molto curata, con la foto di Whisky, cagnolino dal pelo fulvo che ha svolto il ruolo di mascotte dell’Istituto, prima di congedarsi dalla vita.
Nel tunnel che ci catapulterà nella monotona e soffocante quotidianità dei detenuti, ci concediamo una breve e piacevole sosta in cucina. Saggiamo una gustosissima granita al caffè preparata dal team di cuochi – tutti ristretti – guidato da F. V., ergastolano “ostativo”. Con i suoi “Dolci cReati”, F. cerca ogni giorno di riscattare un passato ingombrante e difficile, che a 19 anni lo ha costretto a caricarsi sulle spalle, troppo presto, il peso di una vita che non aveva scelto e di scelte che non era in grado di rifiutare, né aveva la maturità di affrontare. Dopo circa 30 anni di soggiorno in carcere e un percorso serio e “sudato” di risocializzazione, meriterebbe quel minimo di credito fiduciario che lo Stato è disposto ad accordare a chi porta cicatrici profonde come le sue. Non è l’unico, in sosta a Catanzaro, che ha creduto nella possibilità di un riscatto intramurario. Ma da queste parti, come capiremo più avanti, di permessi premio è vietato parlare. Su oltre 200 detenuti “ostativi” non se ne conta neppure uno, ci diranno mezz’oretta dopo, nella litania delle “lamentele”, i detenuti dell’AS1.
Proseguendo il percorso guidato, ci vengono incontro le poche educatrici in organico. Avvertono il bisogno di denunciare la totale paralisi della loro attività e, soprattutto, di trovare qualcuno disposto ad ascoltare il loro disperato grido di aiuto, evidentemente troppo spesso infranto sui muri sordi dell’indifferenza. In fondo, a quanti interessa sul serio la (ri)educazione dei carcerati? Su una popolazione di circa 700 detenuti, in pianta organica si registrano appena 9 educatori. Di fatto, operano in tre. Uno ogni 230. Anche un profano intuisce che in queste condizioni è impossibile progettare un trattamento risocializzante. È già un miracolo se si riescono a evadere le mansioni urgenti e basiche. Sono eroiche. Hanno persino deciso di rinunciare alle ferie per evitare che in una realtà già pesantemente rallentata da una burocrazia esasperante e pletorica, il loro meritato riposo possa rendere ancora più pachidermica la inceppata macchina istituzionale. È fin troppo chiaro che lo Stato, almeno qui, ha rinunciato alla propria opera di reinserimento sociale dei detenuti. Come se il risultato della “partita trattamentale” non producesse effetti fuori dal recinto di giuoco. Un finto risparmio. Che solo una ostinata cecità e una colpevole indifferenza possono calcolare.
Se si perde la sfida del “trattamento”, concependo il carcere come discarica sociale, si differisce il “conto” solo al check-out. E si paga due volte. Perché chi è abbandonato alla sua solitudine, ci insegnano la storia e la statistica, quando uscirà, non solo sarà più esposto alla recidiva e, quindi, a commettere nuovi reati (con inevitabile costo individuale e sociale) ma si ripresenterà, con elevata probabilità, al check-in di un nuovo istituto di pena (con ulteriore costo umano ed economico, visto che lo Stato spende 140 euro al giorno a detenuto), alimentando brutalmente il circuito vizioso. Giungiamo, finalmente, all’ultimo piano, e inizia il nostro giro. Siamo al vertice dell’Alta Sicurezza, la cosiddetta AS1, nella sezione del “fine pena mai” dedicata agli ergastolani e ai detenuti ritenuti più pericolosi, dagli ex 41bis ai promotori delle associazioni criminali. Qui non esiste la “pena di morte”, ma si conosce bene il significato della “morte per pena”.
Non è possibile sintetizzare le successive 5 ore di intensi colloqui, affrontati attraversando anche la “AS3” e la Media Sicurezza (“MS”), ma alcune disfunzioni sono emerse in modo prorompente. (Segue)
Francesco Iacopino e Dario Gareri
Segretario e Vice-Presidente della Camera penale di Catanzaro