Sapete qual è il libro di filosofia più bello, più avvincente e nutriente di questa stagione? Il commento a Umano, troppo umano, aforisma per aforisma di Sossio Giametta (Bibliopolis). L’autore, saggista, traduttore, filosofo, si impegna a commentare tutti gli aforismi di Umano, troppo umano, appartenente alla cosiddetta fase “illuministica” di Nietzsche, dopo averli mirabilmente tradotti mezzo secolo fa. Configurando un “metodo” prezioso nell’accostarci – amorevolmente, criticamente – ai filosofi. La filosofia è dialogo, anche litigioso, con i filosofi che ci hanno preceduto. Mi piacerebbe che il “metodo” diventasse contagioso, che cioè qualcuno si cimentasse nello stesso esercizio, poniamo, con l’Etica di Spinoza, con La ricerca sull’intelletto umano di Hume, con le Briciole filosofiche di Kierkegaard (per dire tre libri fondamentali, che ho molto amato).

Il commento di Giametta è puntuale, rispettoso, acuminato, e sempre fortemente personale: ogni volta mette in gioco se stesso, una conoscenza di prima mano del pensiero filosofico e il rapporto “urgente” con la propria esperienza quotidiana (appartiene alla famiglia dei “moralisti”, digressivi e antisistematici, diversi tecnicamente dai filosofi professionali). Glosse e scolii rappresentano un immenso deposito di cultura filosofico-letteraria, acume psicologico, conoscenza della vita. Di tale deposito mi limito a segnalare tre o quattro cose per me salienti. Anzitutto, come ne esce Nietzsche? Giametta ci va giù con mano pesante: gli aforismi del filosofo tedesco sono per lui alcune volte scombinati, arbitrari, sballati (con titoli fuorvianti), altre volte “spiritosi”, e infine altre volte geniali. Ciò che viene giustamente sottoposto a disamina critica è lo “stile nietzscheano”: roboante, spettacolare, pieno di frasi ad effetto e di velleità poetiche (sarebbe meglio dire poeticistiche), e insomma la sua “teutonica radicalità”.

A ben vedere proprio questo stile ha avuto una grande influenza sui nostri filosofi contemporanei, traducendosi in un estremismo tutto retorico, manieristico, privo di qualsiasi rapporto con il senso comune, attratto dall’estremo e dall’oltre. Nietzsche loda proprio l’equilibrio e la misura cui risulta perlopiù refrattario, finendo a volte in una specie di Kitsch allegorico (ma forse ne è consapevole: definisce Leopardi il maggior prosatore del secolo, e lui è certo lontano dalla sua grazia di scrittura). Valga per tutti il giudizio di Tolstoj che definì Nietzsche, a causa della sua spesso inutile complicazione, un “civettuolo feuilletonista”, tutto paradossi brillanti e rovesciamenti. Entrando più nel merito Giametta porta i suoi affondi critici lì dove Nietzsche ci appare oggi più datato: condanna della compassione (“il peggiore dei mali”), giudizio negativo sulla morale, liquidazione del cristianesimo (che, benché devitalizzato – annota l’interprete – “continua a offrire l’amore, la protezione e la provvidenza del padre, che la laicità non può offrire”). E non parliamo degli elogi della guerra e della schiavitù o dei sinistri progetti eugenetici.

Giustamente l’autore ricorda che la morale è “un fatto naturale, non metafisico”, come vorrebbe Nietzsche: viene dal basso, e coincide con una solidarietà biologica, con la identificazione dell’individuo con la specie. Ciò che non convince è proprio la proposta nietzscheana di “rinaturalizzazione” dell’uomo, e cioè l’auspicio di un (gioioso) imbarbarimento, di un recupero dei suoi istinti più ferini, e dunque l’esaltazione della sopraffazione e dello sfruttamento dei deboli da parte di una casta superiore. Dentro la nostra natura ci sono egoismo e ferocia, ma anche cooperazione ed empatia. Nel filosofo tedesco riecheggiano teorie riduttive alla Rochefoucauld che tutto spiega con la vanità umana. Né si può negare l’esistenza di azioni disinteressate, o se si preferisce motivate da un interesse bene inteso.

Inoltre: Nietzsche non crede alla logica (serve solo a rasserenare i “Malati” mettendo ordine nel caos), in quanto funzionerebbe solo su cose uguali e nella natura non c’è niente di uguale: eppure “nella natura non c’è, a rigore, neanche niente di completamente disuguale”. Poi Giametta critica a più riprese la negazione nietzscheana del libero arbitrio. L’essere umano, certo determinato da molteplici cause, è un pezzo di essere, è una parte della potenza della natura, e di questa condivide la libertà creativa. E poi, sbotta Giametta: “negare la responsabilità, accettata in tutta la storia umana, sebbene sia difficile da dimostrare, può mai essere un’idea sana”. Su giustizia e amore: se il diritto è non solo necessario ma “terribile”, perché “sempre impari, nella sua dura logica, alla vita inafferrabile” (Salvatore Satta), non perciò possiamo giudicare “stupido” (Nietzsche) l’amore, che dà a tutti indipendentemente dai meriti. Né, d’altro canto la giustizia stessa è interamente riducibile ad accordi e patti di convenienza: la sua origine è nella dignità umana, che rifiuta la soperchieria e la disuguaglianza.

Ora, il valore della filosofia di Nietzsche consiste proprio nella sua spietata attitudine alla scepsi, al “martello critico”, alla demolizione di illusioni e ipocrisie, dunque nel continuo riesame critico delle proprie stesse posizioni. Di ciascuna delle “verità” prima riportate, benché suonino apodittiche, definitive, lo stesso Nietzsche scriverà una parziale ritrattazione, una riformulazione problematica (è un pensatore scettico). Anche perciò è sempre spiazzante: ad es. quando scrive, ad onta del suo inguaribile pessimismo, “in mezzo alla natura l’uomo è sempre un fanciullo. Questo fanciullo fa a volte un sogno cupo e angoscioso ma quando riapre gli occhi si ritrova in paradiso”.

Le pagine di Umano, troppo umano dedicate a un sistematico smascheramento dell’essere umano – o meglio della borghesia trionfante e delle magnifiche sorti – conservano tutta la loro affilata, scandalosa verità, così come le pagine di Marx e Freud, la cosiddetta “trilogia del sospetto”, la quale tende a sottolineare la parte bassa, materiale dell’uomo, che “tira giù tutto”. Mentre la sua magniloquente pars costruens ci appare oggi meno convincente. Benché sia da valorizzare la “china felice”, presente, in quest’opera, della “attenzione nelle piccole cose, alle famose cose prossime”. Anche meditando queste pagine se oggi un ventenne – inappetente alla lettura come la maggioranza dei suoi coetanei – mi chiedesse il titolo di almeno un libro indispensabile, non esiterei a indicargli Guerra e pace (Giametta propende per Goethe): nel romanzo tolstojano scopriamo infatti che nell’esistenza ci sono più cose tra il cielo e la terra di quante se ne trovano nelle sentenze memorabili di Zarathustra.