Il ricordo
Chi era Gianni Agnelli: libertino e aristocratico con la Fiat ha costituito il Dna italiano
«L’Avvocato avrebbe piacere di vederla. Andrebbe bene per lei oggi alle sedici?». Quando arrivavo alla redazione di Torino della Stampa dalla fine del 1990 si ripeteva questo rito. Gianni Agnelli mi chiedeva di andare a trovarlo nel suo studio, dove sedeva dietro una grande scrivania su cui appoggiava le grucce che lo tenevano in piedi dopo le numerose catastrofi che gli avevano devastato gambe e piedi. C’era stato un incidente con un tedesco che aveva accettato di farlo fuggire, e poi una tremenda frenata quando guidava la sorella Susanna. Parlavamo per ore e partivamo sempre da Cuba, dall’America Latina, Gabriel Garcia Marquez ed Hemingway. Aveva speso la sua gioventù libertina fra Miami e L’Avana e gli piaceva tornare sulle tracce della memoria di Marilyn Monroe e di Tom Giancana.
Giancana era il sindacalista mafioso che condivideva Marilyn con John e Bob Kennedy. Lei si uccise con i barbiturici, ma forse fu Giancana che fece un piacere ai Kennedy perché dopo il famoso “Happy Birthday mister President”, le cose a White House non andavano molto bene. Mi chiedeva spesso se avessi conosciuto i dettagli del patto con cui il vecchio gangster accettò di appoggiare John per la Casa Bianca in cambio dell’insabbiamento del suo dossier da parte del fratello Bob, che poi sarà assassinato nel 1968. L’avvocato era un ascoltatore attentissimo e non interrompeva mai. Appena arrivato alla Stampa, chiamato da Paolo Mieli che ne era appena diventato direttore, ero capitato sul caso Cossiga, il presidente della Repubblica che tutti davano per matto perché fui mandato a seguirlo in una delle sue intemerate il 4 gennaio del 1991, per l’inaugurazione dell’anno giudiziario a Gela.
Cossiga per caso mi aveva visto la sera prima in televisione nel programma di Catherine Spaak Harem dove avevo raccontato di mia figlia Sabina diplomata all’Accademia d’arte drammatica. Cossiga quando mi vide a Gela mi prese per un braccio e mi portò con sé in mezzo alla folla mentre il sindaco, che si era visto usurpato, mi lacerava verticalmente la giacca. Così nacque il mio rapporto speciale con Cossiga che difesi strenuamente dal tentativo di costringerlo alle dimissioni, perché accusato di essere pazzo come un cavallo o come una “lepre marzolina” per usare l’espressione di Tana de Zulueta allora influentissima editorialista dell’Economist. I miei diari quotidiani delle cronache dal Quirinale furono un successo per il giornale e prima di terminare il suo mandato Cossiga nominò l’Avvocato Gianni Agnelli senatore a vita, cosa che gli rendeva la vita difficile per via dei gradini a Palazzo Madama. Ma eravamo ormai diventati amici. Fu lui a propormi di andare a vivere a New York come inviato e le nostre conversazioni proseguirono anche lì, quando veniva a Manhattan nella sua piccola elegantissima casa, e mi invitava a cena con la moglie Marella, sorella di Carlo Caracciolo, che fu il primo editore di Repubblica insieme a Mondadori.
A Roma aveva una casa ineguagliabile sulla piazza del Quirinale con un panorama onirico: non si vedeva semplicemente tutta Roma, ma la si vedeva nella sua zona rosa mattone, ad un’altezza umana e non da aereo. Nel grande salone c’era un gigantesco quadro del futurista Balla, dipinto su entrambe le facce: da una parte la “Marcia su Roma” con Mussolini, i quadrumviri, le uniformi di fantasia di fascisti allampanati e smunti ma con la faccia feroce, dall’altra una automobile lanciata nella corsa, ma suddivisa in frame divisionisti che suggerivano alla maniera futurista il movimento, l’accelerazione, il ruggito della vittoria. Un giorno nel suo studio nel palazzo della Fiat a Torino mi sporsi per dargli la mano e inciampai nelle grucce che caddero con me in una rovina di ferraglia e contusioni. Lui rimase impassibile, non batté ciglio e non disse una sillaba. Poi gli raccontai dei piccoli libri di Gabriel Garcia Marquez che avevo trovato a Santiago del Cile, fra cui le sue corrispondenze da Roma sul caso Montesi dei primi anni Cinquanta e la dolce vita italiana. Mi lasciò raccontare tutto e poi aggiunse soltanto: «Sì, mercoledì scorso ho cenato con lui a Città del Messico».
Quando furono nominati due vicedirettori, seppe che non ero stato contento e mi invitò a cena e mi spiegò che la Stampa era lo strumento fondamentale per i suoi rapporti con il Partito comunista (che aveva cambiato nome) e con i sindacati. La pagina della cultura sulla Stampa era la palestra in cui si allenavano tutte le migliori firme della sinistra italiana che si sentivano a casa loro. Non erano graditi intrusi. Ero io un intruso. Quando avevo imitato il presidente della Repubblica Pertini nella trasmissione di Arbore Quelli della Notte, Lietta Tornabuoni, editorialista ed ideologa della Stampa mi dedicò un velenoso commento il cui tema era “Non si scherza con la Resistenza”. In fondo, che ci facevo io in quel parco culturale e politico dominato da regole strettissime, consuetudini sabaude ma anche togliattiane? La consuetudine, mi spiegò, era quella di scegliere fra le migliori firme gradite al partito comunista uno o due vicedirettori. Non mi disse «e per questo motivo lei non è diventato né mai diventerà vicedirettore», ma il senso era quello. Era l’epoca in cui Walter Veltroni dirigeva l’Unità: mi capitava spesso quando ero a Torino di partecipare all’amicale riunione telefonica tra lui, Paolo Mieli ed Ezio Mauro.
Si faceva a gara nel consigliare a Veltroni i titoli di prima pagina, suggerendogli di avere sempre, in basso a destra, un titolo di fogliettone tutto suo, qualcosa che desse all’Unità un tocco personalizzato e possibilmente sociale, ma di tono leggero. Si discuteva dell’arte – era la tesi di Mieli – di render la lettura del giornale simile ad una escursione che preveda anche momenti di ristoro e sosta, viste del panorama e poi nuove imprese faticose di lettura impegnativa.
La Stampa tradizionale, a cominciare dall’edizione curata da “Ciuffettino”, come era chiamato il geniale Giulio De Benedetti – uomo formidabile e terribile – che guidò il giornale dalla fine della guerra fino al 1968, era una fortezza. Come la Fiat. La Fiat di Torino era la vera città di Torino. Almeno venti volte ero stato catapultato durante la mia vita di cronista al cancello numero Otto per intervistare gli operai sindacalizzati e poi contaminati dal terrorismo. Proprio uno di quoperai diventerà il “Cipputi” di Altan. Conobbi bene anche Cesare Romiti che aveva con Agnelli un rapporto cordiale ma sempre a una certa distanza, mai oltre il “lei”. Romiti aveva retto l’azienda quando Agnelli se l’era ripresa dalle mani espertissime di Vittorio Valletta, che fu il presidente della Fiat dal 1946 al 1966 ma che l’aveva retta anche durante il fascismo, quando l’azienda era ancora un bene strategico, al vertice dei “Fornitori della Real Casa” molto vicina all’Arma dei carabinieri.
La guerra fredda era anche guerra sindacale e politica e industriale. Gianni Agnelli aveva speso la sua gioventù in giro per il mondo, ma poi decise di tornare a prendere le redini della più grande fabbrica italiana. Giorgio Amendola, che era stato uno dei comandanti della resistenza romana, l’aveva condannato a morte per collaborazionismo ma quando i suoi uomini erano andati ad arrestare Valletta trovarono agenti inglesi con la pistola in pugno. Gli inglesi spiegarono che Valletta aveva diligentemente sabotato la produzione industriale bellica durante la guerra e che andava trattato come un patriota. Dopo la guerra Valletta chiamò il giovane Gianni Agnelli e gli disse: «Decida lei chi vuole al comando. Se devo essere io, voglio carta bianca». Gianni Agnelli non ebbe dubbi: «La prego, professore, prosegua lei». E corse in America a rifugiarsi fra i suoi amici bostoniani fra cui il giovane senatore John Fitzgerald Kennedy e i banchieri David Rockefeller e André Meyer. Leggo su internet della sua vita amorosa di quei tempi che è molto complicata ma che vede in testa l’ex nuora di Winston Churchill, ex moglie di Randolph Churchill. Di qui, penso, il suo distintissimo tocco di accento british anche quando parlava con gli americani. Poi si ruppe di nuovo la gamba già riotta durante la guerra e che si romperà di nuovo sciando. Si disintegrò più volte in auto e sugli sci. Rischiando di perderla. Ecco perché portava sempre con sé queste grucce sulle quali vergognosamente inciampai rovinando.
Gianni era nato a Torino il 12 marzo 1921, dunque domani sono cento anni. Finito il liceo, volò subito in America dove resta affascinato, oltre che da New York, troppo facile, anche da Detroit, la capitale dell’automobile, del Cipputi americano e della catena di montaggio. In una delle nostre stravaganti conversazioni ricordai quanto era pesante sorvolare la Germania dell’Est provenendo da Ovest, quando improvvisamente la notte diventa nera, non c’è più un bagliore, solo tracce malate e giallognole. «Anche a Detroit, mi rispose. Anche Detroit quando la sorvolai durante la grande recessione era buia. Detroit sembrava morta». Si fece la sua guerra come tenente in Africa, poi diventò ufficiale di collegamento con le forze di liberazione. Non parlava mai di quegli anni e di quelle durezze. Ne parlava più volentieri sua sorella Susanna che diventò per un breve periodo ministro degli Esteri: «Gianni mi chiama tre volte al giorno, mi disse, perché è curiosissimo e vorrebbe sapere tutto anche i segreti più segreti e devo dirgli: guarda caro che non posso raccontarti proprio tutto, sai? Primo, perché non ho tempo e poi perché sono cose riservate. – E rideva felice perché fra i due era rimasta questa antica complicità che abbiamo letto su Vestivamo alla marinara – Ma lui insiste, insiste…».
Fratello e sorella avevano la stessa passione per fare il sindaco: lui a Villar Perosa e lei all’Argentario. La storia industriale della Fiat sotto la guida di Gianni Agnelli chiunque se la può leggere su internet e dunque la tralascio, ricordando solo di essere io stesso stato un bambino-Fiat. La prima macchina che entrò in casa fu una Cinquecento “C”, poi una Topolino giardinetta – una miniatura delle station wagon americane – con carrozzeria in finto legno, poi sempre le Fiat casalinghe fino alla prima Cinquecento che i miei genitori mi regalarono quando compii vent’anni e potei prendere la patente. Tralascio i ricordi retorici sul miracolo italiano e l’autostrada del Sole, anche perché quella era ancora la Fiat di Vittorio Valletta, ma la Fiat era qualcosa che teneva in piedi il Dna italiano. Non avendo mai avuto alcuna passione per il calcio, e comunque considerandomi un.
Romanista distratto, non potei iscrivermi – ma forse era dovuto, non so – ai convertiti alla Juventus che era l’altra istituzione fondamentale insieme alla Fiat, la Ferrari (presa dalla Fiat di Agnelli). Adesso che la Juve è – momentaneamente – al disastro, penso che l’Avvocato abbia fatto bene a morire in tempo prima di avere un dispiacere istituzionale, che non ha di per sé nulla di sportivo. Quando lasciai la Stampa per passare al Giornale, lo andai a trovare nella sua casa romana dove mi ascoltò impassibile, mentre gli spiegavo le molte ragioni di una difficoltà genetica. Quando terminai mi guardò ancora per un tempo talmente lungo da farmi provare un certo imbarazzo e che mi imponeva di chiedermi che cosa stesse pensando, che cosa volesse dirmi se avesse potuto dirmi qualcosa, ciò che l’etichetta invece gli vietava. Poi finalmente ruppe quella sospensione e disse con la rapidità di chi inghiotte una pillola: «Dunque lei ci lascia. Peccato. E auguri per il suo futuro».
Essendo io un plebeo, non ebbi ritegno nel mostrare la mia commozione e il dispiacere personale per la fine di una relazione amicale rarefatta e straordinaria. Quando andavo a trovarlo nel suo ufficio mi riceveva sempre con un grande sorriso piegato in mille rughe e aveva gli occhi fessurati in quel viso che aveva avuto troppo sole e mi chiedeva: «E allora? Si diverte? Mi racconti: sii diverte?». All’inizio non capivo bene il senso di quella domanda. A quale genere di divertimento si riferiva? Poi capii il senso calvinista della questione: il lavoro che io facevo, doveva secondo lui provocare piacere. Era certamente convinto che il so giornale fosse quindi il luogo più piacevole per un giornalista, così come la Juventus doveva essere la squadra più piacevole per chiunque si occupi di football.
L’Avvocato è morto ormai da diciassette anni. Ma nel frattempo è morta la Fiat, quella Fiat. Quell’orgoglio, quel marchio, quello stile e quella commistione impossibile fra l’austerità torinese e il libertinaggio intellettuale. È svanito un mondo di cui l’Avvocato è stato uno straordinario prim’attore, un uomo che quanto a vita privata ha avuto molte pene e ne ha probabilmente inflitte. Ma allo stesso tempo era un arci italiano come non penso ce ne siano più perché è finito il mondo delle grandi famiglie con idee futuriste e settecentesche allo stesso tempo, libertine e severissime. Nell’Italia dell’Avvocato, uno non valeva mai uno, ma valeva quel che valeva e la crescita era certamente felice.
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