È morto a Cesare Romiti, uno degli uomini simbolo dei due pesi-due misure di Mani pulite. Per dirla con Piercamillo Davigo, Romiti “la fece franca”. La fece franca però con la complicità del mitico pool. Il top manager si presentò un bel pomeriggio davanti al dottor Di Pietro, che nel lontano 1993 per la stragrande maggioranza degli italiani era purtroppo una sorta di Gesù Cristo tornato sulla terra, e presentò un elenco di tangenti pagate dalla Fiat. Era per dimostrare la volontà di collaborazione con la magistratura da parte del colosso dell’auto.

Quell’elenco di mazzette però si rivelò nel giro di un batter d’occhio estremamente lacunoso. Insomma, c’era un rischio di inquinamento delle prove grande quanto un palazzo. Romiti avrebbe potuto fare la fine di tanti altri comuni mortali e finire in carcere. Non finì a San Vittore ma l’anomalia non fu tanto questa, perché in linea di massima meno si usa la custodia cautelare e meglio è. Il problema sta in quello che accadde dopo. Ci fu una riunione nell’ufficio del procuratore capo Francesco Saverio Borrelli con la partecipazione dei magistrati del pool e la Fiat rappresentata dal legale storico, Vittorio Cassiotti di Chiusano, e dal professor Giandomenico Pisapia, assoldato per l’occasione con tutto il suo prestigio.

Il risultato fu che sulle tangenti della Fiat in pratica non si indagò più. Davanti a quel tipo di potere chi diceva di voler rivoltare l’Italia come un calzino si fermò. Romiti non fu l’unico a farla franca.
Anche Carlo De Benedetti aveva presentato una lista di tangenti pagate con diverse “dimenticanze”. Pure con lui tarallucci e vino. Per capire le ragioni delle scelte del pool bastava sfogliare i giornali con i quali sia Romiti sia De Benedetti qualcosa da spartire avevano.

I giornaloni erano tutti a favore dell’inchiesta. Un enorme do ut des: nel pieno della rivoluzione una finta rivoluzione.

Non c’erano spazi per dissentire. Chi scrive queste righe fu portato in Tribunale, primo giornalista al mondo, per aver scritto di un manager Fiat invitato “a ripassare domani” nel timore che mettesse a verbale chiamate di correità. Insomma, i grandi imprenditori prima si erano messi d’accordo con i politici per fare i soldi e poi con i giudici per non andare in galera vendendo “l’indipendenza” dei loro giornali.

Passato il 1993, vero e proprio “anno nero” di Mani pulite caratterizzato dall’entrata e uscita dall’inchiesta come una meteora del banchiere sbancato Pacini Battaglia, arrivò il 1994. E lì comparve il grande imprenditore da indagare fino in fondo senza sconti. Era “disceso in campo”. Chissà se si è mai pentito di aver appoggiato Mani pulite con le sue tv per due anni spiegando che quello era “il nuovo”.