In memoria di Cesare Romiti è giusto raccontare l’episodio in cui, nel ruolo di amministratore delegato della Fiat, riuscì con la sua fermezza, a salvare il grande complesso automobilistico in preda ad una crisi produttiva aggravata dal disordine interno che aveva reso ingovernabili gli stabilimenti.

Ma l’esito di quella lotta segnò la sconfitta di un sindacato che si credeva onnipotente e che, in quella vertenza, aveva sbagliato completamente l’analisi dei processi in atto. La vicenda può essere riassunta così: “I 35 giorni di lotta alla Fiat” nell’autunno del 1980. I guai, in quell’anno orribile, non erano finiti. Neppure dopo la strage di Ustica e l’attentato dinamitardo del 2 agosto 1980 alla stazione di Bologna, in cui 85 persone persero la vita e circa 200 restarono feriti. Nell’autunno di quello stesso anno, il sindacato sopravvissuto ai ruggenti anni Settanta – come quel cavaliere che continuava a combattere senza accorgersi di essere già morto – sarebbe andato incontro a una cocente sconfitta alla Fiat.

L’azienda torinese si trovava a dover fronteggiare una situazione di mercato decisamente critica e priva di prospettive a breve. Aveva inizio la grande ristrutturazione produttiva del decennio Ottanta. Dapprima furono richiesti migliaia di licenziamenti.

Poi, dopo la caduta del governo Cossiga, la Fiat colse l’occasione per aggiustare il tiro tramutando la richiesta di licenziamenti in 23 mila sospensioni. I sindacati, che erano scivolati, per sostanziale debolezza, in uno sciopero a oltranza, coi picchetti davanti ai cancelli, non furono in grado di convincere i lavoratori a cambiare forma di lotta, rientrando al lavoro e adottando iniziative di sciopero di più lungo respiro.

Così l’azione andò avanti per 35 giorni. Fino a quando, il 14 ottobre, si svolse a Torino una grande e inaspettata manifestazione a cui presero parte 40 mila lavoratori tra capi, tecnici e impiegati, in difesa del diritto al lavoro. L’evento suscitò un’enorme impressione e indusse i vertici sindacali, fino a quel momento fortemente impegnati nella battaglia, a pervenire a un accordo che venne vissuto dalle avanguardie come una sconfitta, tanto che, il giorno dopo, i segretari confederali vennero inseguiti da alcuni gruppi di lavoratori, quando si presentarono nelle assemblee.
Cesare Romiti, allora amministratore delegato del gruppo torinese, alcuni anni dopo ricordò la conclusione della vertenza con questa parole: “La svolta del 1980 fu determinante non solo per la Fiat ma per tutto il Paese. Non credo di peccare di presunzione se affermo che parole come profitto, produttività, merito hanno riacquistato il diritto di esistere in Italia grazie soprattutto a noi, alla nostra fermezza”.

Allora dirigeva la Cgil del Piemonte Fausto Bertinotti e Claudio Sabbatini – l’unico che pagò per la sconfitta con un’emarginazione durata anni e pagata duramente anche sul piano personale – era il segretario della Fiom che seguiva il settore dell’auto.

Come il bambino della favola, i quarantamila di quel 14 ottobre 1980 avevano svelato la nudità del sovrano-sindacato. I dirigenti più responsabili colsero quella traumatica occasione per compiere quanto non erano stati in grado di fare prima: concludere, alle condizioni possibili, una vertenza ormai insostenibile. Viene da chiedersi – col senno di poi – perché il sindacato abbia avviato una riflessione autocritica soltanto dopo la sconfitta, mentre prima – in nome di una falsa unità di classe – l’intero movimento confederale si era schierato a favore di una lotta persa in partenza, perché partiva da una negazione della crisi come dato oggettivo rispetto al quale la stessa azienda non aveva spazi di manovra, salvo condannarsi a un inesorabile declino.

Le analisi compiute dal sindacato erano invece tutte incentrate sull’esigenza di sconfiggere un disegno diabolico, teso a recuperare potere in fabbrica. Le maestranze della Fiat furono le prime vittime di una direzione sindacale in parte inadeguata e in parte pregiudizialmente intenzionata a inasprire la vertenza e la lotta. Nel suo insieme, il sindacato sembrò negare, infatti, l’oggettività della crisi produttiva, il mutamento dei mercati e la necessità da ampi processi di ristrutturazione.

Tutta l’operazione – la richiesta di 15 mila licenziamenti prima, di 23 mila lavoratori in cassa integrazione poi – veniva denunciata come se fosse un disegno strumentale dell’azienda. L’insuccesso alla Fiat, così, fu benefico. E trasformò radicalmente l’approccio culturale verso i problemi del sistema delle imprese. Nel decennio Ottanta l’apparato produttivo passò attraverso un tritacarne: interi settori, che erano stati l’ossatura dell’apparato industriale – la siderurgia, la petrolchimica, la navalmeccanica e in genere le industrie a partecipazione statale – subirono trasformazioni profonde e sopportarono conseguenze pesanti sull’occupazione e sulle condizioni di lavoro. Il sindacato, tuttavia, assunse quasi sempre posizioni negoziali e di collaborazione, finalizzate a salvare l’unità produttiva anche a costo di amministrare costi sociali enormi come nel settore della chimica di base.

Dopo la svolta alla Fiat, che contribuì a demolire l’idea dell’occupazione come variabile indipendente, fu la volta della messa in discussione del mostro della scala mobile, una vera e propria fabbrica d’inflazione a due cifre. Ci vollero altri 13 anni e contrasti durissimi per venirne a capo. Ogni documento, nella Cgil e non solo, doveva per forza finire con l’impegno del sindacato a difendere il potere d’acquisto delle retribuzioni «a partire dalla scala mobile». Ma questa è tutta una altra storia.