Da alcuni giorni la stampa internazionale ha iniziato a pubblicare, per la prima volta nella storia, centinaia di documenti ufficiali del governo cinese che descrivono in modo dettagliato e accurato un sistema di repressione immenso e terrificante: oltre un milione di uiguri, popolazione musulmana turcofona da decenni oppressa dal regime cinese – come lo è da oltre 60 anni quella tibetana – sono attualmente costretti in giganteschi campi di rieducazione in Cina, e lì si trovano senza che abbiano commesso alcun reato. Sono lì solo perché appartengono a un’etnia diversa, sono musulmani e quindi, per ciò, sospettati di slealtà verso Pechino. Il Consorzio internazionale giornalistico investigativo (di cui fanno parte 16 testate tra le quali il New York Times ed El Pais) è riuscito anche a documentare qualcosa che si sospettava da tempo e che dovrebbe far rabbrividire chiunque, non solo gli uiguri, i tibetani, o i giovani di Hong Kong: il regime cinese ha ideato e sviluppato un algoritmo che, partendo dai dati raccolti dalle autorità sulla vita dei cittadini, individua quelli (in questo caso gli uiguri) che vanno arrestati e poi rieducati.

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Sia chiaro, non si parla di indagini svolte dalla polizia e poi valutate dalla magistratura, ma di raccolta di dati da parte di un algoritmo a disposizione del regime comunista cinese – non esiste nessuna vera separazione dei poteri – e che stabilisce chi debba essere arrestato e rieducato. In un caso che descrive bene la folle pericolosità di questo approccio, in una regione dello Xinjang (gli uiguri chiamano la loro terra East Turkestan) l’algoritmo aveva individuato e selezionato oltre 20mila “sospetti”, ma le autorità ne hanno arrestati “solo” 15mila. La ragione di questa differenza? Molti erano già deceduti oppure erano uiguri, ma dipendenti del governo cinese. L’algoritmo tende quindi a sparare molto nel mucchio. E come nel peggior incubo in un film di fantascienza, o nel 1984 di Orwell, l’intelligenza artificiale messa al servizio della burocrazia autoritaria e nazionalista, diventa un “Grande occhio che tutto vede e a tutto provvede”, usato da un regime spaventato dai propri cittadini e che per questo sembra in grado di fare solo una cosa: terrorizzarli. Una cosa quasi da non credere, o da fantascienza, ma che è la realtà oggi in Cina, nella seconda potenza economica mondiale. Dalla Cina all’Italia, il passo sembrerebbe molto lungo, ma in realtà il mondo sta diventando sempre più piccolo nel bene, e purtroppo anche nel male.

Beppe Grillo, da sempre attento alla tecnologia e alla comunicazione e un esponente politico che ha fatto della lotta al potere il proprio brand, pochi giorni fa ha deciso, senza neanche vergognarsi, di ospitare sul suo blog un articolo contenente propaganda cinese che nega la repressione degli uiguri – semplicemente negando l’evidenza; poi, domenica è uscita anche la notizia che Beppe Grillo ha trascorso due ore insieme all’ambasciatore cinese e, di fronte alle domande su cosa sia andato a fare all’ambasciata cinese, ha risposto ironizzando sul pesto alla genovese e non dicendo una parola sulla repressione senza precedenti che sta avvenendo in Cina. I 5 stelle già nel governo SalviniDi Maio si erano distinti per essere stato il primo governo del G7 a sposare il progetto egemonico cinese della Belt and Road Initiative, suscitando grandi preoccupazioni (e sconcerto) a Washington e in altre capitali. Ma non basta, il ministro degli Esteri Di Maio ha poco tempo fa dichiarato che su quanto accade ad Hong Kong il governo italiano non si pronuncia, cercando così di ingraziarsi Pechino e rigettando con una frase decenni di sforzi internazionali per affermare che il rispetto dei diritti umani non sono “questioni interne agli Stati”, ma legittimi interessi di tutta la comunità internazionale. Il problema di Beppe Grillo, e dei 5 stelle, e quindi dell’Italia, non è che questi sono dei dittatori, è che non hanno convinzioni, non hanno punti di riferimento culturali o politici solidi, e non studiano. Si illudono che la politica sia fatta solo con la tattica e la furbizia, magari adulando il potente di turno, ma non rendendosi conto che esistono delle differenze non da poco tra i potenti e che buttarsi tra le braccia di un potente regime autoritario è una scelta contraria agli interessi strategici dell’Italia.

Matteo Mecacci

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