Non mi aspetto che Craxi venga ribattezzato con l’acqua miracolosa in cui fu immerso Curzio Malaparte, eccellente scrittore, fascista della prima ora, tra i protagonisti esterni dell’omicidio Matteotti e redento, nel dopoguerra, dal ministro di molta grazia e di poca giustizia. No, mi aspetto invece che chi siede su questi banchi compia un atto di coraggio condividendo le parole lungimiranti di un ex presidente della Repubblica e di vari capi di governo con cui Craxi lavorò, che si ponga almeno un paio di domande: quanto incide, nella caduta della Prima Repubblica, il mutato clima internazionale? Quanto incide il tramonto della centralità della politica a vantaggio della finanza, con conseguente svendita di pezzi pregiati dell’industria italiana?

Non tocca anche a noi valutare, scavare, immergersi nei torbidi di quel tempo, o basta affidarci alla penna di buoni giornalisti e a storici di buona volontà come non avessimo a cuore l’identità di una nazione, le radici dalle quali proveniamo?

Un’ultima questione. Quegli anni lacerano una storia magnifica del Novecento italiano. Fossi stato a Montecitorio, la geografia degli scranni mi sarebbe stata di aiuto. Là Turati e Matteotti, più sotto Nenni, Treves, la Merlin, Loris Fortuna, lassù Saragat e Pertini, non lontano da dove siedo Gino Giugni, il padre del giuslavorismo italiano. Chi ha fatto una scelta di vita non può accettare che una storia che ha avuto ragione venga abrasata, relegata in un canto o, peggio, narrata con sussiego o, peggio ancora, con compassione.

Ma nemmeno chi ha il privilegio di sedere nel Senato della Repubblica, dovrebbe accettare che il passato in cui hanno vissuto e lottato i suoi genitori e i suoi nonni, quale esso sia, venga rappresentato come una commediola da teatro di provincia.