La politica di Donald Trump verso il Continente africano continua a procedere con notevoli alti e bassi. La nuova lista di dazi annunciati lo scorso 1 agosto dal Presidente degli Stati Uniti, ed in vigore dal 7 agosto verso una serie di Paesi (circa 60, inclusa l’Unione Europea, il Giappone, l’India e la Gran Bretagna), comprende ben 22 Stati africani. Alcuni di essi erano già stati colpiti dalle tariffe di Trump del 2 aprile, nel cosiddetto “giorno della liberazione”, ma le cifre nei quattro mesi trascorsi sono cambiate, per motivi non sempre chiari.

A pagare i dazi continentali più alti, al 30%, sono l’Algeria, la Libia e il Sudafrica, seguiti dalla Tunisia al 25%. Eppure si tratta di Stati che strategicamente dovrebbero rientrare nell’orbita di interesse americano ed occidentale, ma che a causa di uno “sbilanciamento nei flussi commerciali” (principalmente petrolio) sfavorevole agli Stati Uniti, e alla mancata conclusione di una generale intesa sui dazi con Washington, risultano adesso i più penalizzati. Gli altri 18 sono tutti tassati al 15%, ma 7 Paesi (Ghana, Uganda, Repubblica Democratica del Congo, Camerun, Ciad, Guinea Equatoriale, Nigeria) hanno visto peggiorare la propria situazione tariffaria rispetto al 2 aprile, mentre altri (Angola, Botswana, Costa d’Avorio, Lesotho, Madagascar, Malawi, Mauritius, Namibia) pagheranno dazi minori di quanto annunciato nel “Liberation Day”.

Le decisioni, come accennato, paiono contraddittorie: l’Angola, lo Zambia e la Repubblica Democratica del Congo, ad esempio, dovrebbero far parte di una area di interesse prioritario americano, per la prevista riabilitazione della Ferrovia di Lobito: 1.300 km di strada ferrata, tali da consentire un migliore deflusso verso la costa atlantica dei minerali strategici della regione. Tuttavia, mentre l’Angola vede ridurre le sue tariffe dal 32 al 15%, la RDC le vede aumentare dall’11 al 15, malgrado fosse stato promesso al Presidente congolese Tshisekedi un “premio” per aver concluso l’accordo di pace con il Rwanda, volto a fermare i combattimenti nella Regione del Kivu, sottoscritto a Washington poche settimane orsono, sotto gli auspici dello stesso Trump. Anche lo Zambia è incluso nell’elenco al 15%. Al Ghana, Paese sostanzialmente democratico e liberale, uno dei pochi del West Africa a non avere aperto all’influenza russa, e da decenni ormai nell’orbita economica e politica occidentale, viene imposto il dazio al 15%, in rialzo dal precedente 10%, a causa di alcuni debiti ancora pendenti verso Società americane; però la Costa d’ Avorio, con un posizionamento geo-politico simile a quelle ghanese, vede ridursi invece le proprie tariffe dal 21 al 15%.

Infine, alcuni Stati hanno tratto vantaggio dall’essere produttori tessili di primario interesse per l’economia statunitense, e per avere concluso con successo i negoziati commerciali con gli USA: si tratta di Madagascar, Mauritius e Lesotho, rispettivamente minacciati in aprile di un’applicazione dei dazi al 47%, al 40%, e al 50%, e ora soggetti tutti al 15%. Il piccolo Lesotho, attraverso le proprie massime autorità, ha comunque dichiarato di non essere in grado di fronteggiare la concorrenza internazionale neanche con le nuove tariffe più basse, e di non comprendere peraltro il criterio con cui l’Amministrazione americana ha individuato questi numeri. Ai restanti 32 Stati africani si applicherà la generica tariffa del 10%, a meno di futuri ripensamenti di Trump. A prima vista, quindi, il Presidente USA, con questi nuovi dazi verso l’Africa, sembra aver privilegiato gli aspetti della bilancia commerciale americana, piuttosto che le considerazioni puramente geopolitiche, mentre pare ormai segnata la sorte del Trattato AGOA (African Growth and Opportunity Act), in vigore in America dal 2000 per consentire a molti Paesi del continente africano di esportare oltre 1.800 prodotti in USA senza barriere doganali, ma di cui è prevista la scadenza nel prossimo settembre.

Tutto ciò accade mentre, in totale contro-tendenza, la Cina ha annunciato nel giugno scorso la propria volontà di eliminare le barriere doganali su una serie di beni provenienti dal Continente africano. Una misura che, qualora realmente applicata, potrà ulteriormente accrescere l’influenza di Pechino in Africa, con un effetto opposto, quindi, a quello auspicato dall’Amministrazione americana nelle sue linee generali di politica estera.

Giuseppe Mistretta

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