Basta l'Euro?
Dazi, la lettera che non arriva. E Trump resta l’unico a decidere
Si è atteso finché si è potuto, ma la lettera non è arrivata. Modalità e tempi della mancata missiva sono stati studiati da Trump con l’intento di rovinare il fine settimana all’Europa. La presidenza danese del Consiglio Ue si è vista costretta a mettere in preallerta il Coreper, il Comitato dei Rappresentanti Permanenti, pronto per essere convocato all’ultimo minuto. Tra oggi e domani, si rischia di lavorare a Bruxelles. Questa è la vera notizia. Ieri è stato il giorno più lungo. Dopo un’attesa di oltre tre mesi. Ovvero da quel ventoso Liberation day, ricordato come la chiave di volta della globalizzazione. Passata da essere paritaria e multilaterale, a conflittuale e isolazionista. Del resto la comunicazione sui dazi non avrebbe cambiato le cose.
I mercati
Come non lo hanno fatto le altre venti e passa lettere spedite ad altrettanti governi. Si sarebbe trattato infatti di una dichiarazione d’intenti. Le sole comunicazioni più concrete sono state quelle indirizzate a Cina, Regno Unito, Vietnam e da ieri Canada, il cui export in Usa viene daziato del 35% sui prezzi alla frontiera. Sono tutte basi per rivedere gli accordi commerciali in essere. Nulla è vincolante. Ciò non toglie che ieri il Presidente Usa si è portato a casa la partita. E lo avrebbe fatto comunque. Anche se avesse deciso di mandarcela quella benedetta lettera. Ha giocato sui tempi. Ha osservato l’andamento dei mercati. Le Borse europee hanno chiuso tutte in calo. Piazza Affari ha segnato un -1,1%. Ma nessuna si è fatta prendere dal panico. Quelle cinesi erano perfino in positivo. I mercati stanno acquisendo resilienza. Lo si era visto già con la guerra dei 12 giorni Israele-Iran: pochi scossoni, isolati nell’Oil&Gas, poi recuperati. Anche questo è un sintomo della nuova globalizzazione.
Trump esce allo scoperto
L’incertezza diventa il pane quotidiano degli investitori. In linea con il trend Wall Street. Questo giornale va in stampa con New York che registra perdite contenute. Vista la situazione, Trump è uscito allo scoperto. Avuta la garanzia della tenuta finanziaria, è passato al tavolo politico. A pagarne le spese è stata tutta l’Europa. Governo italiano incluso. Spiace dirlo. «Senza intervento di Giorgia Meloni, non saremmo alle trattative», diceva ieri il ministro Urso. È vero. Ma l’azione di Palazzo Chigi ha soltanto prolungato le trattative, che, peraltro, non sono arrivate a un dunque. Questo è infatti il punto nodale. Trump continua a essere l’unico a decidere. È lui che impone gioco, regole e risultato. Con noi e con gli inglesi, con cui – può essere – voglia arrivare a un accordo favorevole bipartisan. Ma anche con la Cina, con cui vuole andare alle mani. Calcio d’inizio e triplo fischio finale sono di insindacabile diritto del presidente Usa. Ha ragione quindi Jamie Dimon, Ceo di JP Morgan. L’Europa è una “looser”, ha scritto sul Financial Times, in fatto di competitività. E non solo in termini fattuali. Come il famoso rapporto Draghi sosteneva. A proposito, perché non se ne parla più? Bensì come capacità di trattazione diplomatica.
L’unico paracadute
Nonostante l’impegno del governo italiano, ammessa e non concessa la giustezza della linea muscolare proposta dalla Francia, riconosciuto infine il lavoro del Commissario Ue all’Economia, Valdis Dombrovskis – ieri in visita a Roma – unico e fedele esecutore delle decisioni di Ursula von der Leyen, bene, tenuto conto del pacchetto, il risultato per l’Ue è stato un fumoso imperativo categorico da parte di chi pensavamo che fosse il nostro migliore amico. Il prossimo pericolo, assolutamente da evitare, è che la Casa Bianca arrivi a proporre accordi bilaterali con i singoli Paesi Ue. In attesa delle ritorsioni di Bruxelles – è plausibile che non arrivino mai – ci sono governi che possono cadere in questa trappola. Al contrario, Roma, Berlino, Parigi e le altre capitali Ue dovrebbero prestare maggiore attenzione alle preoccupazioni espresse da chi ha le mani in pasta nell’economia reale. Abi, Confindustria e Banca d’Italia ci dicono che dazi e dollari debole sono il combinato disposto per una recessione senza precedenti. Per propria volontà, gli Usa intendono perdere terreno sui quadranti internazionali.
Il nostro solo paracadute è un euro forte. Basterà?
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