Il dibattito sulla depenalizzazione dell’atto medico ha assunto un ruolo centrale nel panorama politico e sanitario italiano. Già nel 2017 la legge Gelli – Bianco aveva avuto il merito di affrontare la questione cercando di bilanciare i diritti del medico e i diritti del paziente con l’introduzione di garanzie e concentrandosi su un paradigma diverso da quello tradizionale, dando priorità alla prevenzione dei rischi, con l’istituzione di un sistema verticale di monitoraggio e prevenzione. Fondamentale era stata l’introduzione all’interno del codice penale dell’articolo 590 sexies che punisce chi provoca la morte o le lesioni di una persona nell’esercizio della professione sanitaria a causa di imperizia del professionista sanitario, escludendola, tuttavia, qualora fossero rispettate le linee guida o le buone pratiche clinico-assistenziali.
Tuttavia l’articolo in questione si limita a richiamare le norme generali in materia di omicidio (art. 589 codice penale) e lesioni personali (art. 590 codice penale), senza specificare nel dettaglio la condotta che deve essere posta in essere dal professionista sanitario, limitandosi a descrivere quelle che potrebbero essere le cause di esclusione della punibilità.

Una formulazione di questo tipo, così generica, fa sì che un professionista sanitario sia punibile separatamente per due reati diversi, in violazione di un principio cardine del nostro ordinamento giuridico, denominato principio del “ne bis in idem”, in virtù del quale nessuno può essere giudicato o punito due volte per lo stesso reato.

La richiesta dei sindacati medici, che hanno indetto sciopero più volte in questi mesi, è quella di arrivare ad una completa depenalizzazione dell’atto medico, che comunque la predetta non prevedeva, prendendo atto che il medico non può essere sottoposto a tre tribunali (ospedaliero, ordinistico e giudiziario) e che per giudicare non si può partire da una presunzione di colpevolezza.

L’Italia, infatti, è uno dei tre Paesi al mondo insieme a Polonia e Messico a non averlo ancora fatto. A tal proposito il 28 marzo 2023 è stata costituita dal Ministero della Giustizia una commissione per lo studio delle problematiche relative alla colpa professionale medica il cui obiettivo è quello di esplorare l’attuale quadro normativo e giurisprudenziale, in cui si iscrive la responsabilità colposa sanitaria, per discuterne limiti e criticità proponendo un dibattito in materia di possibili prospettive di riforma.

Il ministro Schillaci, a dover di cronica medico, ha più volte ribadito la necessità di raggiungere la valorizzazione del personale sanitario anche attraverso la garanzia di condizioni organizzative che consentano a medici e infermieri di lavorare in serenità e in sicurezza. Sono infatti circa 35 mila le denunce che ogni anno colpiscono i medici, di queste il 97% delle cause penali finisce nell’assoluzione o nell’archiviazione, il 70% di quelle civili altrettanto. Fattore, questo, che si allaccia al tema del numero enorme di processi oggi nei tribunali italiani, nonostante la riforma Cartabia: vigendo l’obbligatorietà dell’azione penali, i magistrati sono costretti ad indagare circa la veridicità della notizia criminis.

Giovedì 11 gennaio c’è stata una nuova spinta verso la depenalizzazione medica quando la Camera ha approvato sei mozioni, presentate da più partiti, trasversalmente, concernenti iniziative in materia di disciplina della responsabilità professionale degli operatori sanitari.
L’obiettivo è anche quello di introdurre, accanto al ricorso alla via giudiziaria, un sistema di risoluzione “alternativo” delle controversie, anche valutando l’opportunità di istituire presso ogni centro regionale una commissione indipendente e imparziale per comporre in via stragiudiziale le controversie tra i pazienti che hanno usufruito di prestazioni sanitarie e il soggetto che le ha erogate.
La proposta di depenalizzazione mira a ridurre gli effetti della medicina difensiva, termine che fa riferimento a quelle decisioni, attive od omissive che i medici prendono, non valutando in maniera preminente il criterio essenziale del bene del paziente, quanto piuttosto l’intento di evitare contenziosi per non aver effettuato tutte le indagini o prescrizioni adeguate, o, al contrario, per aver effettuato trattamenti ad alto rischio di complicanze per il paziente.

Si cerca così di migliorare la qualità delle cure e di ridurre i costi inutili, per una cifra stimata intorno ai 10 miliardi di euro, come riportato dalla nota depositata agli atti della XII Commissione (Affari sociali) della Camera dei deputati in occasione dell’audizione dall’ACOG, ma anche ad evitare ritardi nella diagnosi del paziente. A beneficiarne, infatti, sarebbero le liste d’attese, oggi, in gran parte rallentate dalle prioritarie prestazioni di pronto soccorso e molte delle quali richieste a maggior tutela del medico prescrittore.

Altra conseguenza della medicina difensiva è la riduzione dell’interesse verso specialità considerate rischiose con riduzione del personale sanitario in alcuni ambiti meno appetibili, incrementando sia lo stress per chi vi opera (overshifting) sia il rischio di errore, che a sua volta alimentano la sfiducia dei pazienti in un circolo vizioso che è interesse della collettività interrompere prima che sia troppo tardi.
Le eccessive responsabilità a cui i medici sono sottoposti, aggiunte al numero di ore in eccesso non retribuite e lo stipendio non in linea con quello degli altri colleghi in Europa sta provocando una lenta emorragia del personale verso la sanità privata.

Federico Bennardo e Vincenzo Pio Tetta

Autore