Madrid – Circa cento anni fa, il filosofo José Ortega y Gasset pubblicava un’opera ancora oggi considerata una delle sue più importanti produzioni politiche: “La España invertebrada”, la Spagna invertebrata. Lo scrittore analizzava la crisi che viveva il suo Paese all’inizio del Novecento, si interrogava sulla classe dirigente, studiava e criticava la nascita del particolarismo, quell’esplosione di sentimenti regionalisti soprattutto in Catalogna e nei Paesi Baschi.

E tutto questo, Ortega y Gasset lo sintetizzava appunto nel concetto di una Spagna ormai senza colonna vertebrale, fiaccata e disillusa, polarizzata e divisa come compartimenti a tenuta stagna incapaci di raggiungere una sintesi. Cento anni dopo, la Spagna che esce dalle urne del 23 luglio rischia di apparire non troppo diversa dalle intuizioni di Gas-set del primo Novecento. Con la vittoria mutilata del Partito popolare, vincente ma senza possibilità di governare da solo né con il deludente alleato Vox, e con una sinistra che prova a compattare tutte le forze a disposizione dal Partito socialista fino alle sigle più estreme e indipendentiste, la situazione ap-pare confusa e fortemente critica. Il leader popolare, Alberto Núñez Feijóo, ha fatto capire di essere intenzionato a chiedere comunque la possibilità di formare un governo anche senza avere – almeno al momento – i numeri per raggiungere una maggioranza assoluta. Da calle de Génova, sede del partito, Feijóo ha dichiarato di considerare una “anomalia” il fatto che “non possa governare il partito più vo-tato”.

E per questo ora si prova la difficilissima e tortuosa strada verso la ricerca di alleati ulteriori ri-spetto a Vox di Santiago Abascal. Sfida difficile, per certi versi una missione quasi impossibile. Il parti-to a destra del Pp rappresenta un alleato necessario ma allo stesso tempo diventato ora scomodo, specialmente se il popolare volesse tentare un accordo con il Partito nazionalista basco, vicino a tematiche di centrodestra.

Così, l’alternativa inaspettata dai sondaggi ma concreta dopo i risultati elettorali è quel-la di un ritorno alla Moncloa di Pedro Sanchez insieme a tutte le sigle di sinistra, da Sumar di Yolanda Diaz fino alle varie componenti regionaliste e più radicali. I media spagnoli l’hanno chiamata, non senza una certa dose di sarcasmo, la “coalizione Frankenstein”: una compagine eterogenea e che sembra soprattutto un blocco unito dalla volontà di non far governare la destra.

Il risultato però è che Sanchez, che ha vinto la sua scommessa con le elezioni anticipate annunciate subito il disastro del voto alle amministrative, potrebbe governare non solo con l’appoggio di realtà come i baschi di Bildu, guidata dall’ex Eta Arnaldo Otegi, ma soprattutto con il semaforo verde del catalano Carles Puigdemont. In sostanza, si realizzerebbe un curioso scenario per cui la Spagna, per la propria stabilità di governo, dovrebbe ricevere il placet di un uomo ricercato dalla giustizia e fuggito in Belgio per avere voluto un referendum dichiarato incostituzionale.

Sumar ha già iniziato a trattare con gli indipendentisti catalani. Ma il consigliere di Puigdemont, Aleix Sarri i Camargo, ha spiegato ad Agi che le condizioni per il sostegno al governo sono due: amnistia e autodeterminazione. Richieste che implicano concessioni enormi e un pericoloso boomerang politico per un premier che è riuscito a disarmare Vox e Pp riguardo questo tema. Il fatto che subito dopo le elezioni l’Ufficio del Procuratore della Corte Suprema abbia chiesto al giudice Pablo Llarena il mandato di cattura internazionale contro Puigdemont e l’ex ministro Antoni Comin già sembra essere un primo banco di prova. Tutto questo fa sì che il voto spagnolo si connoti per il fatto di essere stato più di un normale momento della democrazia rappresentativa, ma una sorta di lotta esistenziale.

Elemento reso abbastanza evidente che dal tweet della presidente della comunità autonoma di Madrid, Isabel Díaz Ayuso, che ieri è stata acclamata dai sostenitori popolari mentre dal balcone di calle de Genova parlava Feijóo. “Grazie agli oltre otto milioni di spagnoli che ci hanno votato. Il risultato di queste elezioni, vinte dal Pp, non può trasformarsi in un’arma nelle mani di chi vuole distruggere la Spagna”. Un timore che implica anche la strategia del Pp di puntare sul voto moderato e su quello del cosiddetto “centro ideologico”. Un’inchiesta del Centro per le Ricerche Sociologiche (Cis) indica infatti che più del 30 per cento di chi considera perfettamente al centro dello schieramento ideologico vota per i popolari, mentre il Psoe si ferma al 20.

L’ultima infuocata frase di Ayuso spiega però anche altro. Da un lato tradisce il sentimento di molti elettori del centrodestra, preoccupati da una sinistra che rischia di dover essere sempre più radicale per avere i voti necessari a governare. Dall’altro lato, se messa in parallelo con i toni usati a sinistra, dove si accusa il centrodestra di voler far tornare la Spagna indietro nel tempo o di minare la democrazia, con lo spettro del franchismo agitato per Vox al governo, l’impressione è che questa divisione netta del parlamento sia anche l’immagine più cristallina di un sentimento che caratterizza da tempo il dibattito politico spagnolo: l’idea che vi sia una Spagna contro l’altra.

Una lotta in cui entrambi i blocchi si considerano difensori dell’unica vera idea di Paese. Una guerra esistenziale prima ancora che un duello politico. Ed è una spaccatura culturale che si unisce anche ai dati geografici, su cui vale la pena riflettere. Se la sinistra ha saputo resistere a una Spagna che si è colorata quasi completamente di azzurro, lo deve a Siviglia e al-le due regioni più “ribelli”, ovvero Catalogna e Paesi Baschi. Questi due bastioni della sinistra sono a loro volta i feudi dove si candidano e stravincono le sigle secessioniste, ricostruendo un fronte popola-re che sembra evocare periodi mai dimenticati della storia spagnola. E che sembrano non essere mai realmente sepolti.

Lorenzo Vita

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