Gentile Direttore,
il momento che stiamo vivendo è fonte inesauribile di exempla per un’analisi approfondita della nostra società.
Recluso, il popolo italiano – non sappiamo se la maggioranza, ma certamente la parte più chiassosa – ha scelto di dedicarsi ai flashmob, come metodo per scongiurare l’isolamento.
E giù, dunque, canzoni e canzonette di ogni sorta: c’è il filone meteorologico, che canta “Azzurro” e “Il cielo è sempre più blu“, per scacciare il nuvolone del Coronavirus e quello sentimentale, che intona “Abbracciame“, nel tentativo di ritrovare il calore di una fisicità ormai diventata un tabù. Cercando di riappropriarsi di un sano patriottismo, scevro dei toni del nazionalismo dilagante (purtroppo a molti è ancora oscura la differenza tra i due termini), si cantano gli inni: qualcuno quello di Mameli, qualche altro “Un giorno all’improvviso“. Ogni esibizione è accompagnata da immancabili strumenti di fortuna: piatti, coperchi, fischietti e trombette da stadio orfane di un campionato ormai perduto.
Davanti a questi spettacoli quotidiani, mi tornano in mente le parole di Zygmunt Bauman, uno dei più importanti sociologi del nostro tempo: “quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione“.
Quello a cui stiamo assistendo è la manifestazione di una bulimia comunicativa, disturbo collettivo di una società incapace di coltivare il silenzio e la riflessione; che si esprime in maniera smodata e talvolta patologica, senza cercare, appunto, il senso e la sostanza dei suoi contenuti.
Agli applausi, alle canzoni cantate in unico coro, corrisponde, viene da chiedersi, una vera comprensione del senso di collettività e dei doveri sociali richiesti ad ogni cittadino?
Dovremo chiedercelo quando il nuvolone del Coronavirus sarà passato, al momento della conta dei morti lasciati sul cammino, ai quali non abbiamo dedicato neanche un minuto di silenzio collettivo.
Dovremo chiedercelo quando, una volta tornati alla libertà, saremo chiamarti a scegliere da quale punto riprendere le nostre vite: se da quel a.C. (ante Coronavirus) individualista e scaltro o da un nuovo punto modellato alla luce delle riflessioni sociali, politiche e umane che da questi giorni di clausura potranno (si spera) scaturire.
Ho molti dubbi, Direttore, che questo possa succedere, se non useremo questo tempo per raccogliere le nostre idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla nostra vita di uomini e cittadini.
Un caro saluto,
Giulia Milanese